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Cara professoressa che mi rimproverò, trent’anni dopo della punizione di Maradona si parla ancora

Cara professoressa che mi rimproverò, trent’anni dopo della punizione di Maradona si parla ancora

Me lo ricordo anche io, quando Maradona sfidò la fisica e fece gol alla Juve. Ma non è di quello che accadde domenica 3 novembre 1985, che voglio parlarvi, bensì di quello che capitò il giorno successivo. Lunedì 4 novembre, trent’anni fa, oggi. Il Rionale era già sufficientemente Napolista per andare allo stadio, in quella che si chiamava ancora tribuna laterale, nonostante i postumi di una grave frattura al femore. La domenica in piedi per ore, sotto la pioggia, la stampella a reggere il braccio destro e l’ombrello nella mano sinistra. L’indomani a scuola, nel liceo del Vomero che quella mattina era attraversato da un’euforia pazzesca. La vittoria del Napoli aveva trasmesso una scarica di adrenalina pura. Ma era la lezione, in classe, che pareva non finire mai. Un ostacolo lungo tre ore ci separava dall’intervallo delle 11.25.

Quando la campanella, finalmente, squillò, nonostante la stampella mi alzai di scatto, mentre la prof continuava a parlare, aprii la porta e uscii fra la folla che aveva già invaso i corridoi. Chi era ancora in classe, racconta di avermi visto alzare il braccio con il pugno stretto e gridare, semplicemente, “Napoli, Napoli”, mentre l’insegnante mi guardava indignata. Al rientro, dieci minuti più tardi, la prof era livida. “Queste scene sei pregato di farle a casa tua. Siamo a scuola, non allo stadio”, disse con un tono che sembrava una coltellata. A me piaceva la storia e provai a replicare con un argomento che mi pareva condivisibile: “Ma professoressa, erano dodici anni che non succedeva”. Lei, evidentemente, non capì e alzò il tono della voce: “Ma per favore, fai la persona seria”, rispose. Ero serissimo, in verità. Al punto che mi sentii in dovere di insistere: “vedrà che fra altri dodici anni si parlerà ancora di questa partita”. Avevo oltrepassato il limite, evidentemente. La professoressa sembrava furiosa: “Adesso basta, mi hai già fatto  perdere troppo tempo. Andiamo avanti con la lezione”.

E insomma, come tutti avrete già capito, mi ero sbagliato di grosso. Non se ne sarebbe parlato solo per dodici anni. Ne sono passati trenta, e abbiamo tutti ancora negli occhi il braccio di Tacconi che tenta invano di raggiungere il pallone, la rete che si gonfia, lo stadio che esplode, Diego che corre verso la curva e quei minuti interminabili, prima del fischio finale. Gli abbracci, le lacrime. La sensazione che qualcosa, da quel giorno, sarebbe cambiato per sempre e un’altra storia, non solo sportiva, era stata scritta proprio in quel momento, in quell’istante, dal genio di un artista che faceva il calciatore. E la lezione che avevo osato interrompere? Non me ne voglia, prof, ma non riesco proprio a ricordarla.
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