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Nel lancio di Pirlo per Baggio (Juventus-Brescia) ci sono vent’anni di politica italiana

Nel lancio di Pirlo per Baggio (Juventus-Brescia) ci sono vent’anni di politica italiana

È in libreria “Il più maldestro dei tiri”, l’ultimo libro di Marco Ciriello uno che è difficile ingabbiare in una definizione: è tante cose, scrittore, giornalista, curioso, e persino napolista. Pubblicato dalla casa editrice ad est dell’equatore, il libro è un coraggioso, divertente e disincantato sguardo sull’Italia attraverso il calcio. Un atto d’amore per questo sport, per Berselli (cui il libro è dichiaratamente ispirato) e per un calciatore che ha interpretato il gioco del pallone in maniera sublime. Di seguito vi riportiamo il capitolo intitolato “Dieci verticale”.

Nel lancio che da Andrea Pirlo arriva a Roberto Baggio, non intervengono esterni, non ci sono ali, è una linea verticale che si fa gol archetipo, quasi per dare ragione a Rainer Maria Rilke o forse a Roberto Calasso: «il futuro entra in noi molto prima che accada», e in questo caso entra in area prima dei difensori. Adesso questa cosa qua la fan- no ancora per poco a Barcellona, dove appena pensioneranno Andrés Iniesta e Javier Mascherano finiranno di «andare per vie centrali», e a me ricorda Aldo Fabrizi trovato in lacrime da Enrico Montesano prima di andare in scena per un Rugantino, almeno credo, dove il geometra romano chiede al maestro il perché di tanto dolore, come una Barbara D’Urso, e il vecchio, mostrando un catalogo di paste artigianali, gli risponde: «‘a vedi questa? Nun la fanno più».

Anche Berlusconi ha sfondato al centro quando non sembrava fosse più possibile, facendosi partito e poi pezzo di società come prima si era fatto pezzo di città (Milano 2) e pezzo d’immaginazione (Mediaset); crollata la Dc tutti i commentatori si aspettavano che l’Italia andasse sulle fasce, a destra c’era il serpignoso Gianfranco Fini e a sinistra il leziosissimo Achille Occhetto che nonostante la lezione calcistica di Cesare Pavese riperse il tram; e in mezzo, a centrocampo, solo come un personaggio di Wim Wenders in un parcheggio: Mariotto Segni. Invece, Berlusconi e la sua Forza Italia fecero il pieno proprio di Dc, occuparono quello spazio e quello del Psi, con un triplete, al quale il povero Oscar Luigi Scalfaro, presidente Figc, riuscì a strappare solo una sostituzione per il sinistro e più mancino dei ministri: Cesare Previti.

Quello che però l’Italia non sa ancora è che Berlusconi a differenza di Moro, gioca sì a centro ma è un destro, mentre «lo statista morto tra- gicamente» – come direbbe o forse ha davvero detto più volte: Bruno Vespa con faccia contrita – era ambidestro: due forni, due gambe, due fasce. Il risultato è che mentre Pirlo tiene gli equilibri delle squadre dove gioca, Berlusconi per una sindrome dribblomaniaca che prende origine da Gianluigi Lentini – di cui si son perse le tracce dopo la mancata presidenza della commissione trasporti – e arriva fino a Ruby Rubacuori, in una parabola tutta giocata sulla fascia destrutta e storicizzata da una grande cronaca breriana scritta da Pietrangelo Buttafuoco. Con formazioni, caratteristiche, punteggi e soprannomi, che gli costò la messa fuori rosa da “Panorama”, dove era arrivato per volere di uno degli ultimi veri allenatori prestato a un giornale: Pietro Calabrese, l’equivalente su carta di Osvaldo Bagnoli.

L’altra grande differenza tra Moro e Berlusconi è la vita privata, per il presidente Dc c’è bisogno di un sequestro e della tragicità di un processo ad opera delle Brigate Rosse – ultrà che avevano frainteso la resi- stenza partigiana e/o catenaccio con lunghe ripartenze primaverili – per intravedere tra le righe la sua cucina, qualche sua abitudine, sempre con una compostezza da Gigi Riva, un hombre vertical marcato a uomo. Tanto che in molti nel suo partito non riconoscevano quelle sue aperture, dicevano di non riconoscere lo statista, perché, appunto, parlava il Moro privato. Con Berlusconi, fin da subito il privato prende il sopravvento, con il primo “intervento” porta le sue ragioni private dentro le case degli italiani, il suo discorso di “discesa in campo” era un manifesto di intenti, anche una autorizzazione a procedere, poi colta dalla magistratura e dal terzino Marco Travaglio, un Passarella che gode nel picchiare, proprio come dichiarava il difensore argentino a Gianni Mura, dolendosi della differenza antropologica con i difensori di oggi: «gente che picchia per- ché è scarsa, io picchiavo per il piacere di picchiare».

«Il privato è privato, altrimenti sarebbe pubblico», interrogato da tv e giornali sulla sua storia d’amore con la presentatrice di Sky Sport, Ilaria D’amico, così rispondeva Gianluigi – che tutti chiaman Gigi – Buffon, e uso questa espressione non so più se manzoniana o del trio Marchesini Solenghi Lopez – una linea d’attacco niente male per i loro anni –; perché ho sempre pensato che I promessi sposi fosse il libro italiano che ci contiene tutti e anche un libro “sorte” di quelli che apri a caso e trovi la frase che ti conforta o serve, io lo faccio con l’Ulisse di Joyce, perché amo il calcio irlandese, però conosco gente che lo fa con Manzoni, addirittura uno scrittore tutto cultura americana famoso per la sua esterofilia, mi disse, che da ubriaco prendeva a recitare pezzi della Colonna infame come se fosse l’Italia di Bearzot82.

Per l’insoddisfazione mostrata nelle immagini che lo ritraevano nell’atto di calciare, ho sempre pensato Alessandro Manzoni – Don Lisander per Brera – come un Eric Cantona seduto, anche se poi a scuola lo depuravano dai dribbling a vuoto, dalle discese sulla fascia concluse da cross «neutralizzati» dal portiere avversario, e dai tiri finiti in tribuna. Busillis. Insomma, l’ho sempre visto come un mago, sarà che identificavo i suoi favoriti con il colletto alzato di Cantona: sopperiva a una faccia che credevo glabra e che invece poi è fiorita di barba quando è uscito dai campi di gioco ed entrato nelle inquadrature di Ken Loach. Il lancio tutto verticale che da Manzoni arriva a Cantona ho potuto vederlo solo molti anni dopo il liceo, quando andando a casa del maestro Roberto De Simone – una sorta di Gigi Riva musicale – a parlare del suo libro Satyricon a Napoli ‘44, questi apparecchiò una lezione sull’esoterismo contenuto ne I promessi sposi e culminante nell’incontro tra il cardinale Borromeo e l’Innominato, come una finale di Champions League.

Avrete capito che sto provando a raccontare la tesi del libro, in modo da rassicurare editor e casa editrice, e sto provando ad estendere il pubblico da generazionale e maschile – aprendo un varco – in generazionale con possibilità femminili, sì, perché Alessandro Manzoni ha una certa presa sulle professoresse di italiano, anche se oggi tendono a staffettarlo con la Mazzucco (Melania) mancando la problematica omosessuale nel povero Sandro, nonostante i ministri della pubblica istruzione – cocciuti commissari tecnici, modello Lobanovski – continuino a farlo giocare titolare.

Il Duce ci chiedeva se l’Italia fosse una portaerei naturale o una diagonale difensiva di Vittorio Pozzo.

Berlusconi non lo sa ma lui più che sacchiano è zemaniano. E sto parlando di azione politica, pura analisi di gioco nell’esercizio delle funzioni di primo ministro, senza giudizi di parte né adozioni di tesi come può essere quella che lo vede giocare da Caimano, in una sorta di ribattesimo brasiliano per raccontarne le caratteristiche calcistiche; e che ormai tutti attribuiscono a Nanni Moretti, ed è, invece, di Franco Cordero: una sorta di Nereo Rocco andato all’università, capace di fare scuola persino quando tutti lo criticano e denunciano di non leggerlo.

Berlusconi è zemaniano per la capacità di rifare sempre lo stesso errore, di subire sempre gol allo stesso modo, continuando ad essere se stesso, continuando ad attaccare. Proprio come Zeman, non si è mai preoccupato dei gol che subiva, anche quando erano autoreti – si pensi all’editto bulgaro – ma sempre dei gol che segnava, tanto che oggi Matteo Renzi registrando la difesa e continuando ad attaccare a tre (Facebook, Twitter, Instagram) ha risultati migliori.

Il passaggio da Berlusconi a Renzi ricorda il cambio dei flipper, che fu improvviso, e traumatico, almeno per me. All’apparenza i nuovi flipper sembravano migliori, avevano due piani, più palline, e una marea di contatti e luci con una semovibilità due volte più veloce, anche una sensibilità al tilt triplicata, sembravano migliori ma non lo erano. Il vecchio flipper aveva una meccanicità che rassicurava, c’erano meno luci e più idraulica, c’era più artigianato, sentivi la fatica della costruzione, e avevi la possibilità di inchiodare la pallina e prendere la mira, dopo, questa cosa, è diventata quasi inutile, e, così, passata una estate a provarmi, nel vano disperato tentativo di adattarmi al nuovo, ho smesso di giocarci.

Prima, diciamo intorno alla fine degli anni novanta, ogni squadra ave- va un calciatore che più o meno sapeva calciare le punizioni, poi c’erano anche di bravissimi – inutile dire di Maradona o Zico – anche in squadre piccole: penso a Dirceu che ora è diventato uno stadio ad Eboli, o a Massimo Palanca di cui non ho notizie, ora sarà un velodromo oppure uno svincolo della Salerno-Reggio Calabria, chissà. La punizione era una possibilità che nessuna squadra voleva lasciarsi sfuggire, come un incarico di governo, e anzi, in alcune c’erano attaccanti non bravi a segnare ma bravissimi a procurarsi il fallo, se poi era «d’area» tanto meglio. E di conseguenza c’erano calciatori che una su tre la mettevano dentro. Adesso pare che si possa fare a meno delle punizioni e dei flipper. Mi ha colpito un filmato della “Gazzetta” che chiedeva a Siniša Mihajlovic? – ormai allenatore – di tirare 5 punizioni al suo portiere, e vederlo segnare ancora, quasi che il portiere non fosse pronto a quel tiro che veniva dal passato, dalle «retrovie» avrebbe detto Sandro Ciotti: «illustrandosi».

L’ultimo brasiliano, o se volete l’equivalente di Pirlo in Brasile, anche se in realtà è uno dei maestri riconosciuti dal giocatore con Roberto Baggio, capace di tirare le punizioni e segnarne 2 su 3, è Juninho Pernambucano. E quando per i mondiali, Pirlo è andato in visita a casa del calciatore quasi prepensionato – ultima tessera di partito: Vasco da Gama – ho pensato che era un allineamento tra pianeti, una cosa che forse si riverificherà tra un secolo, quando, per forza di cose, si dovrà tornare a tenere conto delle punizioni e dei vecchi flipper.

Prima di chiudere questo capitolo, voglio dedicare un ritratto-figurina a Iniesta che è il Pirlo spagnolo – che una volta ha chiamato leggenda proprio l’Andrea – di meglio ha fatto solo Carlos Alberto Parreira, ex premier brasiliano, dicendo: «Pirlo è uno Zico davanti alla difesa», non sapendo che in realtà è Agostino Di Bartolomei visto da Nils Liedholm, con l’anticipo della solita socialdemocrazia svedese: la cui unica colpa è stata di non sostenere la candidatura alla Fifa di Olof Palme. Devo scrivere di Iniesta per il mio editor e per dare ulteriore forza e respiro internazionale a questo capitolo, mi piacerebbe poter appiccicare la figurina di Iniesta con la maglia spagnola, magari mancando i lati come facevo da bambino con i riquadri dell’album Panini, primi parametri di Maastricht per noi che avremmo giocato l’Erasmus.

La Calle si chiama Andrés Iniesta, ed è una strada sicura. Al numero sei c’è il calciatore europeo che meglio sta dietro Messi, un instancabilecostruttore di alternative. Se non giocasse a calcio sarebbe un alto funzionario dell’Onu. Di quelli che non la smettono di trovare soluzioni anche dove sembra impossibile, nei campi dei paesi lontani e sconosciuti. Ecco, va così: gli consegni il pallone, lui ragiona e avanza, ragiona e avanza e lo fa a una velocità pazzesca, per l’avversario si creano due problemi: se lo insegue non lo capisce, se ragiona non lo tiene. Non rimane che stenderlo. Iniesta ha lo sguardo infantile, l’animo del timido, quando parla è apparentemente insicuro ma quando gioca, invece, ha la sicurezza del comando, tutti si aspettano da lui la cosa giusta, e lui la fa. In campo il suo motto è “I care”, e davvero si fa carico di ogni azione, un moto perpetuo: trascina, recupera, imposta, dribbla, crossa, tiene e tratta la palla con la cura di un padre e talvolta segna, e quando lo fa la Spagna vince il suo primo mondiale, quando non è lui a segnare, permette di farlo agli altri. E quando gli altri non ci sono più, si ricorda ancora di loro: “Dani Jarque, siempre con nosotros”. La Calle Iniesta che ora porta sempre dritto in porta, che sia Barcellona o Spagna, ha avuto anche dei dubbi, lo racconta Pep Guardiola: «una mattina mi chiese Mi- ster come devo fare per segnare di più? E io risposi: Andrés lo chiedi a me che in dieci anni ne ho segnati quattro?» Non si è mai accontentato. Segna poco perché il suo calcio è offerta, misericordia, concessione. Chiedete a De Rossi quanti secondi si hanno per (non) vedere il pallone ai suoi piedi, e a che velocità stoppa e tira, stoppa e supera, stoppa e vede spazi che ancora non esistono, e che hanno ingoiato Chiellini, Bonucci, Giaccherini e Maggio nella finale europea. La Calle Iniesta è una strada piena di gente, da un lato gli avversari, dall’altra i compagni, in mezzo le invenzioni in 3D del calciatore di Fuentealbilla. La semplicità con la quale tiene il pallone attaccato ai piedi, e si muove in dimensioni strettissime, sopravvivendo agli affanni di chi lo marca, ai loro tentativi di contrastarlo, di spezzare quel legame con la palla, cominciato molto tempo fa: quando suo padre per comprargli un paio di scarpe Adidas Predator, lavorò più sodo del solito per tre mesi. Quel sacrificio se lo porta in campo ancora oggi, e si vede, mentre continua a costruire strade invisibili a suo nome, che lasciano il segno sull’erba.
Marco Ciriello

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