ilNapolista

Il Napoli delle meraviglie di Sarri e l’ultimo tabù: quella maledetta creatura chiamata Chievo

Il Napoli delle meraviglie di Sarri e l’ultimo tabù: quella maledetta creatura chiamata Chievo

Può una squadra segnare 29 gol in undici partite, vincerne tre di fila in Europa League, essere imbattuta dalla seconda di campionato, sommergere di gol Lazio, Milan, Bruges, Midtjylland, battere Juventus e Fiorentina, esprimere il più bel calcio d’Italia e poi ritrovarsi ad aspettare la partita col Chievo come se fosse quella col Bayern Monaco? Sì, può. Se quella squadra si chiama Napoli e se la sua storia recente in serie A è spesso rimasta segnata dagli incontri con quelli che un tempo erano i cugini minori del Verona.

Il Chievo. Chissà se la società del pandoro Paluani (e del direttore sportivo Marco Pacione, un incubo per i tifosi della Juventus) è stata mai così temuta da un avversario. Qualcuno che non segue assiduamente il Napoli sarà rimasto impressionato dalle parole di Maurizio Sarri al termine della sfida di Europa League vinta 4-1 in Danimarca. Sarri ha citato il Chievo per ben due volte. Una volta definendolo un bivioper lastagione degli azzurri. Una seconda citando la conversazione telefonica avuta con un amico: «Mi ha detto che il Chievo è uno di quei pugili che pure se lo batti esci con le ossa rotte». E qui non ce la sentiamo di scomodare figure nobili del ring ma il paragone è calzante.

Per qualcuno sarà stata un’esagerazione. Non per i tifosi del Napoli. Che sia pure entusiasti (eufemismo) per quest’inizio di stagione sempre più simile a un crescendo degno del Bolero di Ravel, aspettano la partita di domenica sera come LA sfida decisiva, lo spartiacque, la gara il cui esito potrebbe autorizzare anche i più scaramantici quantomeno a un sorrisino.

È incredibile ma è così per una squadra che dalla terza partita di campionato in poi sembra aver ingranato una marcia inarrestabile. Tutto è cominciato in Europa League, al San Paolo, davanti a pochi intimi: Napoli-Bruges finita 5-0. Lo stesso Sarri alla fine della partita sembrò un po’ incredulo, tanto che cercò una giustificazione per gli avversari: «Forse hanno patito l’umidità, altre volte li avevo visto più dinamici». Pochi giorni dopo furono altri cinque, stavolta alla Lazio. L’ultima battuta d’arresto, se di battuta d’arresto si può parlare per un pareggio in trasferta, fu col Carpi: zero a zero. Da quel momento solo vittorie: Juventus, Milan e Fiorentina in campionato, Legia Varsavia e Midtjylland in Europa League. In casa o in trasferta cambia poco. Così come cambia poco la formazione schierata: titolari(ssimi) o non titolari. Quattrordici gol fatti, tre subiti.  

Il Napoli gioca un calcio al tempo stesso semplice e redditizio. I calciatori si ritrovano a memoria, la palla scorre al massimo con due tocchi, si va in rete dopo un giro palla lungo e rapido (come contro la Lazio e il Milan) o dopo accelerazioni (il primo di ieri di Gabbiadini) o sfruttando la minima distrazione degli avversari (Insigne contro la Fiorentina). E se in campionato il Napoli segna con pochi uomini (Higuain e Insigne ne hanno siglati 12 su 18, il resto è opera di Allan con tre e Hamsik e Gabbiadini con uno più un’autorete), in Coppa vanno a segno anche Callejon e Mertens. Al momento non sembra nemmeno possibile un’analisi lucida del Napoli: tutto funziona pressoché perfettamente, è molto faticoso non lasciarsi trascinare dall’entusiasmo. Ieri sera, paradossalmente, è stata una delle partite in cui l’avversario ci ha messi più in difficoltà o quantomeno si è affacciato più volte davanti alla nostra porta: un gol, uno giustamente annullato, una traversa sia pur rocambolesca e un salvataggio sulla linea. Fin qui gli avversari avevano fatto non poca fatica ad avvicinarsi dalle parti di Reina. La stessa Fiorentina, che pure ci ha messi in difficoltà nel primo tempo, ha tirato solo con Blaszczykowski.  

E torniamo alla domanda iniziale: può una squadra così aver paure del Chievo? Sì, può. Perché è una storia di strani intrecci quella tra noi e loro. Perché non può essere un caso che se mentre loro festeggiavano la prima promozione in serie A noi ci leccavamo le ferite dopo il lento accompagnamento alla serie B firmato Mondonico. L’anno in cui loro sorpresero il calcio italiano, arrivando addirittura in testa alla classifica, con Marazzina, Eriberto (non ancora Luciano), Corradi, Barone, Legrottaglie, Perrotta e ovviamente Delneri in panchina, noi finimmo quinti in serie B con Di Canio in panchina, Igor Charalambopoulos suo secondo e Corbelli presidente. Della serie: “per non dimenticare”. E non sarà stato un caso se loro retrocessero nel 2007 nel periodo in cui invece noi invademmo Marassi per una festa che per tanti fu la fine di un incubo. Il pappone allora era un benefattore. 

Ci reincontrammo l’anno dopo, per la prima volta in serie A. E capimmo subito di che pasta era il fatto il Chievo. Al primo scontro, a Verona, in un pomeriggio umido (noi avevamo Reja in panchina, ancora per poche settimane, loro Di Carlo) perdemmo 2-1 con due rigori di Marcolini: il primo per un fallo di Aronica, il secondo di Rinaudo. In mezzo un gran bel gol di Lavezzi e un Hamsik espulso per aver detto qualcosa di poco carino all’arbitro. Se la vogliamo buttare sui precedenti, i numeri dicono che in quattordici partite sette volte abbiamo vinto noi, sei loro e solo una volta è finita in parità. Mai a Verona, dove loro comandano quattro a tre. Ma non è una questione di numeri. Ci sono partite che non si dimenticano, come quella in cui, era il 2011, Mazzarri sfoderò un turn-over letale e schierò Fernandez e Fideleff in difesa con Mascara, Santana e Pandev tridente, per così dire, d’attacco. Sempre “per non dimenticare”. Segnò Moscardelli su assist di Fideleff. Potremmo scrivere un libro su Moscardelli, l’Enrico Beruschi calciatore che al San Paolo veniva fischiato manco fosse Aldo Serena.    

Perché il Chievo è un’altra forma di Verona. Non scatta il riflesso come quando giochiamo contro il Verona. È come se fossero altro da Verona pur essendo Verona. È difficile da spiegare ma stavolta Giulietta non c’entra. Negli ultimi due anni abbiamo sempre vinto lì, è vero, ma in casa lo scorso anno ci hanno battuto: segnò Maxi Lopez, nel giorno del rigore sbagliato da Higuain, dei 33 tiri in porta e del dolore di Bilbao. Il benefattore era diventato pappone. L’anno prima solo una rocambolesca deviazione di Albiol a un soffio dal termine ci salvò da una sconfitta.

Insomma il Chievo. Tutto il contrario della parola cuoco. E quando ieri sera Sarri lo ha citato, tutti i napoletani – tutti – si sono guardati e hanno fatto lo stesso pensiero: allora ’o ssape pur isso.  
Massimiliano Gallo

ilnapolista © riproduzione riservata