Salta l’uomo e tira. Dribbla e cerca la porta. Certe volte non dovrebbe, lo sa che la palla dovrebbe passarla. EppureLorenzo Insigne fa finta di non vedere. Si volta dall’altra parte e calcia. Avrebbe potuto segnare due volte così, ieri sera contro la Lazio, a parte quello segnato per davvero, un tocco di sinistra sotto porta, con il merito quasi per intero da attribuire all’azione di Higuain. I due tiri di Insigne post-dribbling parati da Marchetti erano invece tiri ignoranti. I tiri ignoranti sono tiri che probabilmente non andavano presi. In un contesto di saggezza, quei tiri sono un errore.
I tiri ignoranti nascono nel basket (PRIMO GRADO DI SEPARAZIONE) con Gianluca Basile, un barese che ha vinto tantissimo, prima a Bologna e poi a Barcellona, anche l’Eurolega, la Champions del suo sport. Era nell’ultima Italia campione d’Europa del 1999 ed era nella nazionale medaglia d’argento alle Olimpiadi nel 2004. I tiri ignoranti sono tiri privi di una coscienza ed esagerati. I suoi tiri. Nascono a Cantù in una sera di playoff, quando Bologna è al supplementare e ha perso tutti i lunghi, così finisce per vincere grazie alla follia. Diventano letteratura, i tiri ignoranti, in un’amichevole pre-olimpica a Colonia fra Italia e Stati Uniti. Quelli del Dream Team. Non il miglior Dream Team di sempre, l’unico che non riuscì a vincere l’oro, e infatti lo chiamarono Nightmare Dream, ma era comunque una squadra con Iverson, Wade, Boozer, Anthony, Duncan e, scusate, con Lebron James. Questa squadra in Germania gioca e perde con l’Italia perché Basile quella sera era immarcabile.
Come immarcabile viene raccontata anche la terra di Insigne, la nostra terra, tumultuosa e violenta, e qui (SECONDO GRADO DI SEPARAZIONE) c’entra un altro Basile, Giambattista, quello del Pentamerone, Lu cunto de li cunti, i cinquanta racconti di fate divisi in cinque giorni, da cui Garrone ci ha tratto materia per il suo film più recente. Il Pentamerone è scritto in un dialetto che oggi non è più parlato, difficile anche alla lettura. È il dialetto del seicento, la lingua della plebe, una lingua dura, tostissima, aspra come certe volte Insigne, senza nulla della dolcezza a cui ci hanno abituato i musicisti e i parolieri di fine ‘800 e inizio ‘900. Questo dialetto nuovo che oggi ci appartiene nacque invece su impulso della borghesia, terrorizzata dagli eccessi del popolo e dagli orrori della Rivoluzione del 1799. Il dialetto di Basile diventò quello di Salvatore Di Giacomo: depotenziato, con più grazia, e poi tradotto in italiano da Benedetto Croce.
Il dribbling di Insigne, che Sarri sta restituendo alla sua natura selvaggia dopo il sacrificio tattico imposto da Benitez e la mortificazione precedente di Mazzarri, ha il suo specchio empolese proprio in Croce (TERZO GRADO DI SEPARAZIONE), non Benedetto ovviamente, ma Daniele, abruzzese, 33 anni. Daniele Croce, molto più di Valdifiori, è il calciatore che Maurizio Sarri ha in mente quando lascia una squadra e arriva con le sue idee in un’altra. Insieme alle idee Sarri spesso si porta anche Croce. I due si sono incontrati dieci anni fa a Pescara, poi di nuovo ad Arezzo, la terza volta a Sorrento e la quarta ad Empoli. Perché Croce non sia a Napoli, questo è il mistero, e non per quale motivo ci sia invece Hisai.
Nelle pause del suo cammino sotto braccio a Sarri, Croce si è ritrovato anche ad Alessandria, la città che fece esordire in serie A il talento immenso (QUARTO GRADO DI SEPARAZIONE) di Gianni Rivera. Rivera aveva il 10 e Insigne no, sebbene non ci sia nessuno in questo Napoli più numero 10 di Insigne. Un Insigne che gioca in questo modo merita l’attenzione illimitata di Antonio Conte e merita che non si parli più di Saponara. In tv ieri sera diceva Marchegiani che Insigne è il vero regista del Napoli, a testimonianza di come nel calcio moderno i ruoli siano sempre meno definiti e a maggior ragione le formulette numeriche dentro le quali vengono chiusi i moduli. Se non vi viene mal di testa, direi che Insigne sarebbe trequartista nel 4-3-1-2 e sarebbe esterno nel 4-3-3. Ma nel Napoli di Sarri a me pare di vedere un modulo diverso in ogni circostanza: il 4-3-3 quando rilancia Reina, il 4-3-2-1 quando gli esterni stringono al centro e persino sprazzi di 4-2-3-1 (contro il Bruges specialmente) quando Hamsik si alza, si stacca dalla posizione di mezzala e si fa trovare dietro Higuain. Anche Rivera era così. Cos’era Rivera? Una mezzala, un trequartista o più probabilmente un campione? Lui aveva la staffetta con Mazzola, Insigne è legato a quella con Mertens.
Nelle staffette non ci sarebbe niente di male, come sanno gli amanti dell’atletica. È la specialità in cui i grandi solisti della velocità si fanno squadra. I più bravi addirittura fanno crescere intorno a loro una scuola, come accadde pure in Italia negli anni d’oro (QUINTO GRADO DI SEPARAZIONE) di Mennea. Dietro Mennea arrivarono prima Guerini, Caravani e Benedetti per la finale olimpica del 1976; una mezza generazione dopo fu la volta di Tilli, Simionato e Pavoni, medaglia d’argento ai Mondiali del 1983 e quarto posto alle Olimpiadi dell’anno dopo a Los Angeles. Senza più Mennea, anche la 4×100 dell’Italia è un po’ sparita. Oggi siamo qui a rimpiangerla ma quando ne avevamo una forte quasi non ce la siamo goduta, non la abbiamo apprezzata. Pareva normale essere ai vertici dell’atletica fra i giganti del mondo.
Certe figure finiamo per amarle nella loro assenza, come sanno benissimo i cultori (SESTO GRADO DI SEPARAZIONE) di Totò, criticato, ignorato e deriso dalla critica quando era in vita, successivamente acclamato come genio incompreso della comicità. Per entrare nel circuito degli apprezzamenti, Totò dovette in vecchiaia recitare per Pasolini, proprio come Insigne ha dovuto abbandonare il festoso dribbling per la copertura e il rientro, certamente un impegno più d’autore. Godiamocelo adesso, però, questo ragazzo dei tiri ignoranti alla Basile, figlio di quel dialetto passato da Basile a Croce, in un altro Croce specchiato, come Rivera votato alla staffetta, come Mennea messo al servizio di una squadra, nella speranza che sia il nostro Totò del pallone, il principe del dribbling e del gol.
Elena Amoruso