A Varsavia, sulle tracce di Kapuscinski che di Napoli (a Galassia Gutenberg) disse: «Stupenda città»

Sarebbe stato bello venirci a maggio, per la finale di Europa League. Si mise di traverso il Dnipro, o Collina, o il fato, inutile stabilirlo, è lo stesso, a cosa servirebbe. Ma non conta meno essere qui, adesso, a Varsavia, duemila chilometri a nord-est da casa. Avevo messo da parte, quattro mesi fa, indirizzi e […]

Sarebbe stato bello venirci a maggio, per la finale di Europa League. Si mise di traverso il Dnipro, o Collina, o il fato, inutile stabilirlo, è lo stesso, a cosa servirebbe. Ma non conta meno essere qui, adesso, a Varsavia, duemila chilometri a nord-est da casa. Avevo messo da parte, quattro mesi fa, indirizzi e posti da vedere. Henryk, alla reception dell’albergo, straccia tutti i miei piani. Sostiene che c’è un solo posto da cui valga la pena partire, via Nowy Swyat, non perché sia l’arteria commerciale e principale di Varsavia, quanto perché in un piccolo negozio che mi indica, sebbene nel frattempo trasformato, andò a comprare la sua prima macchina fotografica Kapuscinski. Henryk mi racconta che suo padre lavorava come tipografo allo Sztandard Mlodych (me lo sono fatto scrivere da lui) e lì si raccontava sempre del giorno in cui uno dei fotoreporter del giornale, Janusz Zarzycki, avesse introdotto il giovane Kapuscinski all’arte del reportage. Comprarono una Zorka e le prime lezioni di foto si tennero al parco Lazienki (ci passo domani mattina). Poi, per disporsi alla pratica, Kapuscinski cominciò a frequentare lo stadio del Legia. Scattava fotografie alle facce dei tifosi, “facce – racconterà lui stesso – che esprimevano l’eccitazione, l’estasi, la fascinazione o la noia, la felicità o la rabbia”. Henryk mi dice che non aveva il teleobiettivo e neanche lo zoom. Di mezzo c’era la pista d’atletica. Mi pare di capire che le foto erano quelle che erano. Un amico suo ne possiede una, preziosissima, non si sa neppure quanto valga. Lo giura scherzando su Kazimierz Deyna, che è il loro Maradona, quasi 400 partite fra il 1966 e il 1978 e circa 150 gol: due campionati vinti e una semifinale di Coppa dei Campioni. Il Legia ha vinto molto di più dopo di lui, ma Deyna è Deyna. Ha una religiosità perfino nel nome. La foto di Kapuscinski dell’amico di Henryk pare che ritragga un tifoso sorpreso dallo scatto, con gli occhi sbarrati. Dice Henryk che se qualcuno ci fotografa prima che siamo pronti, in posa, prima che diventiamo maschera per il mondo, è come se fossimo colti in flagrante. Come essere nudi, con l’anima esposta.

Al centro arrivo in metro, scendo alla fermata di Plac Wilsona, una stazione che ha dieci anni di vita e che viene considerata fra le più belle d’Europa. Sembra d’essere dentro il nostro metro dell’arte, a Materdei o Toledo. Sul soffitto ci sono dei cerchi che creano un effetto luminoso: il nome della stazione è un omaggio all’ex presidente americano Woodrow Wilson. Passeggio lungo Wybrzeze Gdyriskie, il fiume Vistola è sulla mia sinistra, poi taglio verso l’interno, in direzione del museo di Chopin. I preparativi per il festival in suo onore sono agli sgoccioli. Si tiene ogni cinque anni, questo è l’anno giusto, si comincia fra qualche giorno. Chopin era ammaliato dalle nostre melodie. Dopo aver lasciato Varsavia ed essersi trasferito in Francia, a Parigi frequentava il salotto di Lina Freppa, una cantante di Napoli che spesso ospitava in casa propria anche Liszt e Bellini. Al pianoforte Chopin la accompagnava spesso. Guardo la Vistola e penso a piazza Plebiscito. Oltre il fiume erano sistemati gli alleati che il popolo di Varsavia aspettava, nell’agosto del ’44, per vedere liberata la città dai nazisti. La gente si sollevò sperando in un sostegno. In 63 giorni di insurrezione morirono in 200mila. Pensate a cento persone che cessano di vivere ogni ora. Il museo dell’Insurrezione mostra fucili con i manici in legno, razzi arrugginiti, mortai senza troppe pretese. E poi le foto delle macerie, delle esecuzioni, i giardini con le croci tutte in fila, ricordano il sacrificio e il senso di un orgoglio; l’orgoglio per aver alzato la testa ed essersi ribellati, un sentimento assai vicino a quello delle nostre Quattro giornate, il momento più alto nella storia di Napoli: fine settembre 1943. Varsavia aspettava che il mondo si svegliasse, Hitler ordinò di raderla al suolo. I polacchi rimasero soli. Orwell scrisse che la vigliaccheria avrebbe marchiato a vita quelli che erano rimasti a guardare. Varsavia è rinata uguale a prima. Il popolo polacco ha rimesso ogni mattone al suo posto, dov’era e com’era. I caffè dove erano i caffè, le botteghe dove erano le botteghe, le stesse lanterne all’esterno, gli stessi decori all’interno. Però le guerre non finiscono mai, almeno nella memoria di chi le ha respirate. La Vistola, come Piazza Plebiscito e la chiesa di San Francesco di Paola, sempre di guerra parlerà, e di una città ricostruita su vite perdute. 

Kapuscinski sognava di giocare a calcio. Sarebbe voluto diventare il portiere della nazionale polacca, come quel Tomaszewski che nel 1974 con una fascia tra i capelli buttò l’Italia fuori dai Mondiali con le sue parate. La sua Pinsk, in piena Polesia, oggi Bielorussia, era definita da lui stesso “l’Africa della Polonia”. Gli avrebbe perciò suggerito in anticipo quale via prendere, da quale parte stare, la parte degli sperduti, dei dannati, degli affamati. Con la sua opera stava dalla parte della “letteratura a piedi”. Le Carré lo definì “un negromante del reportage”. Kapuscinski si era inventato un genere nuovo, ma diceva che il primo vero grande reportage della letteratura mondiale lo aveva scritto Erodoto. Quando nove anni fa venne a Galassia Gutenberg, quando Napoli aveva Galassia Gutenberg, Kapuscinski se ne restò in compagnia di Gustav Herling. “Stupenda città” disse di Napoli. “Peccato dover ripartire così presto. Il mondo è troppo grande per una sola esistenza”. Anche se non è più maggio, anche se non è una finale, valeva la pena venire a Varsavia.
Il Ciuccio

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