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Quando l’Italia definiva negretti gli stranieri di colore. Uno era Canè

Quando l’Italia definiva negretti gli stranieri di colore. Uno era Canè

Cosa c’entra l’astinenza da calcio con frasi e pensieri “pseudo razzisti” letti su un giornale di tanti anni fa? Che nesso c’è tra uno stato d’animo (e fisico, aggiungerei), come quello della mancanza di calcio, ed un vocabolario e un mondo che non ci sono più? È successo che, in attesa dell’inizio bum bum, scoppiettante e anticipatorio dell’ex “campionato più bello del mondo”, mi sono tuffato anema e core nella Premier League, un torneo che seguo da fan-atico del football dei padri putativi di questo magnifico sport.

Oltre a sorbirmi un’assolata finale di Community Shields tra Arsenal e Chelsea il primo agosto con i ghiaccioli a farmi da ossigeno e i bagagli da scaricare dalla macchina che odorava ancora di sabbia e di pietre calabresi, ho atteso con impazienza l’inizio del campionato inglese. Bene, se non fosse stato per qualche guida raccattata in edicola all’ultimo secondo e Internet, avrei fatto fatica a riconoscere molti dei giocatori schierati in campo, quelli visti negli highlights la sera e coloro i quali il telecronista sembrava conoscere a memoria (grazie, li ha scritti su un foglio…). Nonostante oggi sulle maglie campeggino nomi e numeri di ogni atleta in campo. Nonostante tutto.

Ogni squadra ha una quantità industriale di stranieri, extracomunitari, africani, sudamericani, brasiliani, cosa da perderci la testa. C’è stato un attimo in cui ho vacillato poiché il mio pargolo li conosceva tutti e io, da presunto esperto di calcio, ho dovuto fare un passo indietro, mi sono dovuto inchinare alla sua “sapienza”. Purtroppo quando ho cercato di spiegargli che ricordavo il primo giocatore di colore dell’Inghilterra, tale Viv Anderson, che debuttò in Nazionale nel 1978, sono apparso come il solito paleolitico e ho dovuto anche stare zitto. Così va il mondo oggi. Eppure ricordo che mi appassionai a quella testa riccioluta di Anderson e seguivo con curiosità l’Inghilterra anche per vedere se quel mastino col numero 2 era davvero forte. Quel terzino aveva evidentemente il rosso nel sangue vista la trafila e la carriera che ha fatto smettendo col calcio a 39 anni suonati. Nel suo palmares una vita col Nottingham Forest, poi anni di Arsenal e un finale di carriera col Manchester United di Alex Ferguson.

Quello di oggi è un calcio diverso, che va sempre a mille all’ora, non ha pause, è frenetico, ha ritmi mozzafiato e a tratti incessante. È un calcio che consuma tutto con troppa fretta riflettendo la vita odierna come quello di cinquanta anni fa rifletteva la vita di allora, più pacata e portata a riflettere, magari ad immaginare più che a desiderare tutto e subito. Si esaltavano i gesti tecnici alla Sivori, Rivera o Corso che ti mettevano la palla sul piede col goniometro piuttosto che le cavalcate a perdifiato di Nainngolan, Allan e Mario Suarez. Non c’erano i predatori d’area che giocano sul filo del fuorigioco, i blocchi in area che sembrano trenini da ultimo dell’anno, tentativi sbagliati di colpi ad effetto, le bombolette spray per farsi la barba, giudici di linea che non sanno vedere se la palla è entrata o meno. Questi sono solo alcuni segni evidenti del cambiamento del calcio negli ultimi decenni ma in questa sede non possiamo dimenticare il contributo che hanno apportato i giocatori stranieri nel nostro torneo. Un contributo più volte interrotto, vedasi il caso clamoroso dei Mondiali di Inghilterra quando dopo la sconfitta con la Corea chiusero le frontiere.

C’è, però, un più che sottile “fil rouge” tra queste considerazioni sugli stranieri e quello che mi è capitato di leggere su una nota rivista che presentava il nuovo campionato 1962-3. Si gridava a qualcosa di sensazionale, l’Italia aveva tre “coloured” tra le sue squadre. Tre per tutte. E qui sorge una bella commedia degli equivoci. Che peso avevano le parole che vi riporterò a breve? Perché in quegli anni non si faceva caso al tipo di espressioni usate? Oggi come le prenderemmo? 

Successe che, quando arrivò Canè nel 1962 e lo mandarono a fare il ritiro pre campionato sul campo di patate di Agerola, in Italia c’erano solo due altri giocatori dalla “pelle scura”. Uno era Germano del Milan, che nel grondare sudore in allenamento sembrava voler dimostrare a Rocco di aver visto giusto, vittima anche di atroci scherzi dei compagni; l’altro era l’interista Jair, riserva di Garrincha nei Mondiali del Cile e del tutto inadatto al clima freddo di Milano. “Saudade” a volontà per tutti, forse l’unico a resistere fu proprio il nostro Faustino Jarbas, presto innamoratosi della nostra città. E non solo.

E veniamo al dunque, al mutato linguaggio sportivo, al passaggio epocale dal “volgare dantesco” all’italiano moderno. Sembra questo, infatti, il paragone più appropriato quando sul giornale che annuncia l’avvicinarsi del campionato si titola così: “I tre negretti del campionato di calcio”, oppure quando, accanto alla foto di Canè, si legge letteralmente: “…Canè è il nuovo acquisto di colore del Napoli. All’ombra del Vesuvio Canè fu preceduto nel 1947 da un altro negro famoso: La Paz”. Ed inoltre, per “chiudere in bellezza”, quando si legge: “I negri sono la maggiore curiosità del prossimo campionato”. Oggi un articolo così farebbe rivoltare nella tomba anche un leghista. Ma mezzo secolo fa quella era la novità. Atleti dal passo felino e felpato, dalla corsa tecnica e ragionata e dal piede fatato potevano solo far bene al calcio italiano. E lo fecero. Ai nostri giorni è cambiato il linguaggio (per fortuna) ed anche l’aspetto di novità rappresentato dall’atleta di colore. Visto che sono in maggioranza, gli stranieri appaiono la norma più che l’elemento innovativo. Chissà cosa accadrà fra 50 anni!

Qualche decennio dopo, a metà anni ’70, prima della clamorosa riapertura del 1980 dove con i Brady, Krol, Falcao arrivarono anche clamorosi bidoni come il fantomatico Luis Silvio alla Pistoiese, i giocatori non italiani presenti nel nostro campionato erano soltanto cinque (fonte Almanacco Panini, non l’ho sognato). Come le dita di una mano. Si chiamavano e si chiamano Altafini, Canè, Clerici, Nenè e Sormani. Chiaramente più che una nidiata di giovani di belle speranze sembravano vecchi atleti in pre-pensionamento, tutti brasiliani, forse sul viale del tramonto e forse no, dipende dai punti di vista. Qui si discute del cosa avevano dato, in termini di valore aggiunto, alle squadre italiane rispetto ai giocatori indigeni. La qualità fu indubbia ma tutti e cinque erano ancora parte di quel gruppo della precedente apertura a oriundi e stranieri della Federazione.

Una curiosità che ha il Napoli come protagonista, una società in cui evidentemente si è spesso parlato in brasiliano. Tutti quei giocatori, tranne Nenè (che, pure, un anno fu trattato e Ferlaino l’aveva quasi preso), hanno vestito la maglia azzurra. Altafini e Canè fecero sognare i tifosi negli anni ’60, ancora Josè “Core ‘ngrato” fece coppia con Sormani all’inizio dei ’70 e con l’arrivo di Clerici e il ritorno di Canè dal Bari si riformò una coppia carioca col Napoli di Vinicio. Una girandola, una giostra dove abbiamo volato ad alta quota ed abbiamo visto del grande calcio. Solo nel 1980-1, come detto, le frontiere furono riaperte e mai più chiuse con campioni e meteore di ogni razza. Basti pensare che nei primi tre anni di riapertura ogni squadra poteva tesserare solo uno straniero e quindi si capisce come non si poteva assolutamente sbagliare l’acquisto. Tutto questo fino ai giorni nostri quando, statistiche alla mano, i giocatori stranieri impiegati sono più di quelli italiani raggiungendo cifre vicine al 55%. Speriamo solo che le rose italiane aumentino e che il contributo “controllato” degli stranieri si riduca. Magari con un novello Canè che faccia sognare i napoletani gonfiando le reti avversarie. Ecco, resistente, lucido, intenso. Come l’ebano.
Davide Morgera (foto Archivio Morgera)

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