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L’estate in cui il Napoli di Maradona cominciò a diventare grande. E, tra gli altri, acquistò “piedone” Pecci

L’estate in cui il Napoli di Maradona cominciò a diventare grande. E, tra gli altri, acquistò “piedone” Pecci

Estati parallele, summer time alla ricerca di pensatori. Ragionatori cercasi, oggi Mirko Valdifiori, trenta anni fa Eraldo Pecci, un giocatore che ha lasciato un ottimo ricordo anche a distanza… siderale. Il Napoli di Maradona concluse il campionato all’ottavo posto ed aveva bisogno come il pane di un centrocampista che facesse il faro e facesse girare una squadra che nel primo anno di Diego adattò prima Dal Fiume e poi De Vecchi al ruolo ma senza grossi risultati. In effetti i due onesti centrocampisti sembravano più un contorno al guerriero Bagni che dei veri ‘registi’. D’altronde quell’anno in rosa il Napoli si ritrovava solo con Celestini e Caffarelli ( quest’ultimo agiva spesso da seconda punta ) mostrando tutti i limiti quantitativi e qualitativi di un reparto ‘trascurato’ nella campagna acquisti precedente. Ad inizio anno il classico 8 che era stato di Juliano e Vinazzani finì proprio sulle spalle di Bagni, poi fu l’ex ascolano e capitano della stella milanista De Vecchi ad avere l’onore di prendere la maglia del regista e portarla fino a fine stagione. In quegli anni il calcio era ancora così, i numeri contraddistinguevano il ruolo e viceversa.

Il 1985 è, dunque, anche l’anno della rifondazione. Ferlaino comprende che per fare una squadra che possa lottare per il vertice deve partire dalle fondamenta. Prende il miglior manager italiano sulla piazza, uno dei riformatori del nostro calcio, Italo Allodi, anche a costo di chiudere i rapporti con Totonno Juliano che pure aveva portato Maradona l’anno prima. Prende Marino, giovane e rampante direttore sportivo per farlo allevare dal ‘maestro’ e prende il Sarri dell’epoca, ovvero Ottavio Bianchi che sta facendo faville a Como, una squadra che romanticamente gioca in uno stadio sul lago. Nasce così, si racconta in segreti incontri settimanali in un hotel di Milano già in primavera, il Napoli che arriverà al primo scudetto. Allodi vuole dare un’ossatura che sia tale di nome e di fatto agli azzurri e spiega, in quegli incontri al vertice, che ha bisogno di un portiere, un libero, un regista e un attaccante di peso.

La spina dorsale del primo tricolore nasce, quindi, proprio nel 1985. In porta arriva Garella che prende il posto dei capelli bianchi del “Giaguaro” Castellini che andrà ad allenare i portieri, a comandare la difesa si individua nel giovane Renica della Sampdoria un libero affidabile, in attacco una punta mobile, ficcante e potente come Giordano e Eraldo Pecci va a coprire l’esigenza di ragionamento, verticalizzazione ed ordine in mezzo al campo liberando in tal modo l’estro di Maradona che ora può collaborare di più con le punte e giocare più avanti. Attenzione, abbiamo parlato di nascita del Napoli da scudetto perchè ci resta ancora oggi la convinzione che se Pecci, un signor giocatore, regista sopraffino ed un predestinato ai grossi club già dall’esordio in A a 18 anni, fosse rimasto non sarebbe arrivato Ciccio Romano e il risultato finale non sarebbe cambiato. Era la convinzione, la determinazione e la ferocia a vincere di quel gruppo che portò al triangolino tricolore, chiunque fosse l’interprete o la pedina dello scacchiere. In pratica il riccioluto ragazzo di Saviano, la “Tota” come lo chiamava Diego Maradona, portò equilibrio e fosforo al centrocampo degli azzurri ma erano qualità che aveva lo stesso Pecci il quale era già nazionale da tempo e a Torino era stato uno degli artefici dello   scudetto dei granata di Radice dopo quelli vinti dallo squadrone perito a Superga. Ma, come sappiamo, Pecci restò un solo anno a Napoli, un solo gol al Verona e 24 presenze e, per motivi extra calcistici, dovette dolorosamente dire di sì al Bologna dove era stato lanciato giovanissimo da un lungimirante Pesaola.

Oggi il romagnolo, detto ‘Piedone’, ha 60 anni, è ingrassato ma ha ancora la faccia dell’eterno bambino. Torino, Fiorentina, Napoli e Bologna le sue squadre del cuore, dopo il calcio ha fatto il commentatore televisivo e ha debuttato l’anno scorso come scrittore con il romanzo dello scudetto granata “Il Toro non può perdere”, un libro da consigliare a tutti gli amanti del calcio vero, divertente, a tratti amaro ma emozionante. In uno dei suoi pezzi da novello scrittore proprio l’anno scorso Pecci ritornò sulla sua esperienza napoletana e raccontò, come una “voce di dentro”, quello che accadeva in quel Napoli, in quella squadra affidata a Bianchi, Allodi e Marino. Da romagnolo vero e sincero Pecci raccontò di una città affascinante, del sole, di un posto che ti insegna a vivere con le sue contraddizioni, col disordine tipico e la generosità, che ti fa riflettere e ti migliora. Di una città che arrivò a paragonare ad un presepe fuori stagione. Una squadra compatta, che fece gruppo da subito, quella che ricorda Eraldo. Le cene che gli offrivano le mogli di Bruscolotti, Giordano e Renica per farlo inserire nella nuova realtà, lo spogliatoio unito con Starace e Carmando, perfino le scappatelle in albergo in dolce compagnia, i dialoghi con i piccoli parcheggiatori abusivi all’uscita dalle pizzerie ( Ehm…il nostro non ha mai nascosto la tendenza ad ingrassare ). Poi il finale un po’ amaro, quando all’uscita dal Bentegodi lo apostrofarono come “Terrone, lavati!” e quando ricordò l’esigenza di tornare dalle parti di casa perché assalito da una sorta di “saudade” romagnola. Ma siamo sicuri che quando Eraldo chiuse questi ricordi e scrisse “Ho poi goduto da lontano delle vittorie dei miei amici (ndr la vittoria è chiaramente quella dello scudetto nell’anno dopo la sua partenza )” la sua fu vera gioia.
Davide Morgera (foto Archivio Morgera)

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