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Nella storia dei rigori c’è il calcio: il posto di Higuain e i numeri da non dimenticare

Nella storia dei rigori c’è il calcio: il posto di Higuain e i numeri da non dimenticare

La domenica in cui Paul Bremer pronunciò la frase “We got him”, per annunciare la cattura di Saddam, cominciò con Billy Costacurta che zappò il terreno di Yokohama e di fatto consegnò la Coppa Intercontinentale al Boca Juniors. In Italia era il 14 dicembre 2003. Il web – qualcuno informi De Laurentiis – esisteva già e la battuta che circolò raccontava di un Saddam catturato nella fossa scavata da Costacurta mentre calciava il rigore. Nessuno ricorda che, prima di lui, per il Milan sbagliarono anche Pirlo e Seedorf. È il perverso e insondabile mistero della comunicazione. Ci si ricorda dell’ultimo o magari del primo. Quasi mai di quello di mezzo. Come Massaro che nel 94 fallì al pari di Baresi e soprattutto di Roberto Baggio. Che poi disse: “I rigori li sbaglia solo chi ha il coraggio di tirarli”. Ecco, Baggio lo tirò al cielo. Meno cielo rispetto a quello di Gonzalo. Ma sempre cielo. Anche di Banega si parlerà poco, soprattutto da queste parti. 

A Roma per settimane i laziali hanno sghignazzato del rigore che Tonetto tirò quasi sopra la curva Nord contro l’Arsenal in Champions League. E nella Roma giallorossa c’è più di qualcuno che storce il naso perché quella maledetta sera, con Antonello Venditti al Circo Massimo, Paulo Roberto Falcao si defilò e guardò dal cerchio di centrocampo Conti e Graziani ipnotizzati di fronte al clown Grobbelaar. 

È lunga, sterminata, la storia dei fuoriclasse e dei rigori. Infinita. Crujiff nella sua carriera ne sbagliò appena sei. Sei su ottantadue. Una media realizzativa del 93%, impressionante. Eppure nella finale del 1974, quello fischiato dall’arbitro Taylor dopo 54 secondi, e senza che la Germania avesse mai toccato il pallone, lo realizzò Neskeens. Otto anni dopo, Cruijff si tolse lo sfizio di inventare il rigore a due: triangolo con Olsen e rete. Ma questa è un’altra storia. 

In una delle partite più belle del Mondiale messicano 1986, Francia-Brasile, sbagliarono sia Zico sia Platini. Il brasiliano se lo fece parare appena entrato in campo e così negò il 2-1 alla sua squadra. Michel durante i rigori finali. Tirò alto. Più o meno come Baggio. Da quella parte là. Alla fine disse: «Ho pensato che tante volte avevo salvato io i miei compagni, stavolta toccava a loro farlo con me».   

Ne sbagliò anche Diego eh. Se ne ricordano almeno cinque con la maglia del Napoli. Con il Tolosa, con la Fiorentina (nel giorno del suo ritorno con la barba incolta, del gol di Baggio al San Paolo e della clamorosa rimonta), due con il Verona (glieli parò entrambi Giuliani, uno nel tremendo 3-0 subito l’anno dello scudetto, l’altro l’anno dopo al San Paolo nel roboante 4-1), con lo Sporting Lisbona in Coppa Uefa (scommise e perse 100 dollari con il portiere jugoslavo Ivkovic). Cinque in sette anni, certo.  

Ci sarebbero John Terry, Schevchenko e tanti altri. Martin Palermo, che proprio in Coppa America, Argentina-Colombia del 1999, ne sbagliò tre. Ci sarebbe anche chi su un rigore ha costruito la propria fama: Antonin Panenka, l’inventore del cucchiaio (che Zidane utilizzò in una finale Mondiale prima di uscirne ingloriosamente). E chi come Vujadin Boskov riportò tutti alla realtà: “Rigore è quando arbitro fischia”. E ovviamente ci sarebbe De Gregori. Chissà se oggi persino Nino suggerirebbe a Higuain di lasciar perdere. Eppure Gonzalo da noi aveva cominciato come meglio non avrebbe potuto. Ne segnò due in una stessa partita, Napoli-Torino. Due rigori da specialista. Poi non è stato così. Quest’anno i suoi errori dal dischetto li hanno imparati tutti a memoria, come fosse la poesia di Natale. Chievo, Atalanta, Milan (non decisivo), e soprattutto Lazio. Alle stelle, proprio come a Santiago del Cile. Stesso angolo, stessa stella. 

In pochi ricordano che il Napoli i rigori li ha sbagliati anche senza Higuain. Persino quest’anno: Insigne allo Juventus Stadium. E negli anni scorsi. Hamsik, definito un rigorista infallibile in allenamento, in serie A ne ha sbagliati quattro consecutivi, con una media realizzativa inferiore al 50%. Anche Cavani dal dischetto era tutt’altro che infallibile: otto i suoi errori su ventuno tiri. Contro Catania e Udinese (nella famosa partita che ci estromise dallo scudetto, lo sbagliò alla fine) il primo anno; contro Siena, Parma e Udinese (poi si rifece con una doppietta) il secondo; e contro Lazio (quando volle tirarlo lui dopo la tripletta), Chievo e Genoa il terzo anno. 

Un rapporto, quello tra il Napoli e i rigori, negli ultimi tempi molto tormentato. Nel pieno triennio mazzarriano – escludendo la stagione in cui è subentrato a Donadoni – il Napoli ha sbagliato 12 rigori su 28 rigori, con una percentuale realizzativa del 57%. Negli ultimi due anni del toscano sulla panchina del Napoli, la media si è abbassata addirittura al 50%: realizzati 9 su 18. E alla fine, giustamente, dal dischetto andavano quasi sempre sempre gli stessi: Cavani o Hamsik. Con l’Inter, in Coppa Italia, fummo eliminati proprio ai rigori: sbagliò Lavezzi. Stessa sorte ci capitò in Coppa Italia a Torino contro la Juventus (c’era Reja), mentre – sempre dagli undici metri – i bianconeri li eliminammo al San Paolo (c’era sempre Reja). 

Stranamente quest’anno il Napoli il suo successo lo ha ottenuto proprio ai rigori. A Doha. E in quell’occasione Higuain non sbagliò. 

I numeri aiutano. Ma, come abbiamo scritto all’inizio, le vie della comunicazione se non infinite sono quantomeno perverse. Sulle spalle del Pipita ora c’è anche la Coppa America, dopo la qualificazione in Champions col Napoli e il Mondiale dello scorso anno: in fondo che cosa sbagliò contro la Germania se non un rigore in movimento, uno di quelli all’americana? Qualcuno ricordi al puntero triste (definizione cucita addosso a Ramon Diaz) che, nonostante la fobia degli undici metri, quest’anno col Napoli ha pur sempre segnato 29 gol in 58 partite: uno ogni due incontri disputati. E l’anno prima 24. I gol si pesano anche, è vero, come tutto nella vita. Ma i numeri vanno comunque letti. 

Ora Gonzalo scelga la strada per riprendersi. Non sappiamo se la pesca dei dorados potrà aiutarlo, o magari a caccia come fece Roberto Baggio, proprio in Argentina, per smaltire la delusione mondiale. Il suo futuro – inteso non come maglia da indossare ma come struttura psicologica – dipende unicamente da lui. Noi restiamo sempre convinti che non è da questi particolari che si giudica un giocatore. Poi sta a lui ragionare con se stesso di coraggio, altruismo e fantasia. 
Massimiliano Gallo 

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