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È il protezionismo culturale che rende più costosi i calciatori italiani: si paga il surplus maglia sudata

È il protezionismo culturale che rende più costosi i calciatori italiani: si paga il surplus maglia sudata

Le cifre delle compravendite di giocatori italiani in questi primi giorni di calciomercato, annunciate ed effettive, raccontate dai giornali e in taluni casi pagate dai club, mi ricordano molto da vicino una delle storie esemplari dell’Italia degli ultimi decenni, ovvero quella che narra della ricerca del motivo razionale che spieghi e consenta di prevedere le fluttuazioni del prezzo della benzina.

Per diversi anni, e in particolari stagioni, la benzina più cara della nazione si è comprata ad Ischia: un distributore isolano s’è potuto fregiare del titolo di più caro d’Italia. Mi ricordo che un’estate, immerso nei miei pensieri per cercare di agguantare una plausibile e sofisticata spiegazione economica a questo caso, scambiai qualche parola di protesta con un ischitano che aveva fatto da poco ritorno da un esosissimo pieno di gasolio effettuato proprio a quella pompa, sicuro di raccogliere anche il suo di biasimo. E rimasi stupefatto: seppure egli avesse tirato fuori dalla tasca una cospicua somma, mi rispose con un sorriso assolutorio che, tutto sommato, quel prezzo era ragionevole. “Stai pur sempre facendo rifornimento a Ischia”.

Fu un’epifania. Capii che, oltre alle strambe teorie di chi farnetica della “memoria dell’acqua”, esisteva una ancora più eccezionale corrente di pensiero che parlava di “memoria della benzina”: come se per qualche motivo esoterico, la benzina fosse più aromatica e garantisse maggiore rendimento se veniva versata nei serbatoi di auto e camion che sostassero ai piedi dell’Epomeo o in riva al mare. Il prezzo alto, insomma, non era eventualmente da ricercare nella complessità delle condutture o in trasporti lungo strade impervie, o in una banale speculazione, ma nella qualità isolana degli ottani. E a sancirlo non era una multinazionale, era un uomo, in carne ed ossa. Il vessato, per essere precisi. (O il masochista?)

I prezzi, raccontati e pagati, affibbiati agli atleti italiani in queste ore, seppure non possano ancora suggerire molto circa le evoluzioni tecniche delle varie formazioni, raccontano moltissimo della cultura che fa da perimetro al calcio, come a molto altro, in Italia. C’è una categoria di calciatori che, similmente a quella benzina ischitana, costano di più, il doppio o il triplo di un presumibile prezzo di mercato. Costano di più semplicemente perché sono italiani. E’ la controparte economica dell’”inadatto al calcio italiano”: così come chi non è di questi lidi non può capire le infinite sfumature di questo sistema complesso chiamato Serie A (e magari ha difficoltà ad afferrare il motivo per cui la benzina nel golfo costi più che a Londra e Parigi), allo stesso modo chi in questi lidi c’è cresciuto ha ipso facto alcuni milioni in più di costo, per scienza infusa. Sono tutti i milioni – si sostiene nei salotti buoni e nei bar sport – che altrimenti bisognerebbe spendere per acquistare, educare ed iniziare un eventuale giocatore straniero al nostro inarrivabile campionato.

Questo italianismo è alla base di un sistema culturale (ed economico) protezionistico. Si ciba di dogane che fanno comodo a tanti. Una prima dogana è la storia, costruita a tavolino, degli stranieri mercenari cui contrapporre la ricerca della maglia sudata. Pare che gli italiani sudino di più, o sudino meglio, o forse emettano effluvi maggiormente aromatici, del tipo di quelli del benzene isolano. Certo, l’Inter del triplete di madide magliette italiane non ne aveva in squadra, ma vuoi mettere un pieno di carburante fatto mentre lontano all’orizzonte scorgi Ventotene invece che la zona industriale di Lovanio? Eppure, questi steccati mentali – in larga parte irragionevoli e controproducenti, giacche’ dal punto di vista tecnico l’Italia calcistica si trova al suo minimo storico, si veda la nazionale – servono. Servono, perché da sempre – almeno da quando Cicerone lo rinfacciò a Catilina – il miglior modo per tenere in piedi un sistema non esattamente trasparente è quello di alzare la posta e suddividerla il più possibile tra le parti – che, in Italia, tengono tutte famiglia. Servono a raccontare una storia che generi una speculazione culturale e poi, ovviamente, economica, che ignori il fatto che oggi ciò che si cerca è il talento, ovunque esso fiorisca, perché solo il talento (e non il suo certificato all’anagrafe) gioca al calcio. Servono, infine, a lasciare le manovre del potere ai soliti noti, facendo credere che chi gira a largo e la benzina la va a fare altrove (magari a Verona) è, tutto sommato, un tardone.

Ma l’elemento più paradossale, che mantiene in piedi il gioco in una amara ironia della sorte, è che, queste dogane culturali, nel calcio italiano, non solo non sono osteggiate, ma vengono largamente condivise ed appoggiate dai fruitori stessi dello spettacolo. I tifosi, gli appassionati, credono molto spesso nell’italianismo con lo stesso approccio fideistico col quale quel tipo giustificava il prezzo alle stelle del suo pieno ischitano. Ed il motivo è che se tutti, insieme, chiudiamo gli occhi e ci diciamo a vicenda, come in un training autogeno, che ci troviamo nel migliore dei mondi possibili, allora un prezzo alto non solo è necessario ma addirittura auspicabile per giustificare e provare – anzitutto a noi stessi – che abbiamo il paradiso a portata di mano.

Allora, capo, quanto faccio – pieno?
Raniero Virgilio

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