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Napolitano, Biagio de Giovanni e quel rifiuto della napoletanità che Napoli non ha perdonato a Benitez

Napolitano, Biagio de Giovanni e quel rifiuto della napoletanità che Napoli non ha perdonato a Benitez

Biagio de Giovanni è un filosofo ultrariformista e oggi sul Mattino spiega perché una certa Napoli non ha mai accettato Rafa Benitez. In realtà il filosofo non cita mai l’attuale allenatore del Real Madrid (meglio ripetere: Real Madrid) ma commenta la recentissima uscita di Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica, sul fallimento della classe dirigente campana e napoletana degli ultimi vent’anni. Questa la frase da titolo dell’ex capo dello Stato: “Non esiste più nessuna strategia per lo sviluppo del Mezzogiorno”. Due osservazioni prima di entrare nel merito. La prima: colpisce lo strabismo del principale quotidiano della regione che da un lato amplifica il dibattito su Napolitano e dall’altro ha assecondato e alimentato il populismo anti-rafaelita. La seconda: perché Napolitano si sveglia sul Mezzogiorno solo adesso, dopo nove anni al Quirinale? Ma andiamo alla sostanza dell’editoriale.

La chiave della napoletanità. Sull’assenza di una strategia, il filosofo de Giovanni torna su un vecchio classico del meridionalismo: le colpe della borghesia, che non solo ha ripiegato sul mutismo (aggiungerei complice, perché la borghesia in questi venti anni è spesso stata ancella del potere con consulenze, assessorati e prebende varie senza fare svolte) ma ha consentito la vittoria della “subcultura di un nuovo plebeismo che si fa avanti con una sua imprevista arroganza, reinterpretando la città in chiave di napoletanità”. Ecco il punto che riguarda anche noi rafaeliti, sia integralisti sia laici: la napoletanità. Il peccato originale di Rafa è stato evidente da subito e il Napolista l’ha riproposto nei giorni del triste (per noi) addio: il video di quel forum al Corriere del Mezzogiorno in cui l’allenatore spagnolo, da pochissimo arrivato, aveva già dimostrato di aver compreso la contraddizione maggiore di secoli di storia: “Per vincere, Napoli deve smettere di sentirsi una città diversa dalle altre”. Il rifiuto della napoletanità è costato a Benitez due anni di contestazioni e attacchi nei salotti borghesi della città, dalle tv ai giornali. Lo hanno criticato intellettuali e professionisti e pure su questo de Giovanni usa parole dure, sempre a proposito della politica: “Professionismo provincializzato e anonimo” che ha portato a un “declino delle funzioni culturali”. La notazione del declino riporta, tra l’altro, all’ultimo capitolo del bellissimo libro di Adolfo Scotto di Luzio, “Napoli dei molti tradimenti”, uscito nel 2008 ma ancora attualissimo: “Ci siamo voluti raccontare un sacco di storie sulla capitale del Mediterraneo o sul prestigio della sua tradizione intellettuale per evitare di prendere atto della realtà di un drammatico impoverimento: delle strutture materiali, della cultura, della qualità della convivenza civile. Incapace ad essere il centro di alcunché, Napoli si rifiuta di guardarsi nello specchio della proprio marginalità”.

Che significa attaccamento? Nell’avanzata di questo nuovo plebeismo, per usare le parole di de Giovanni, rientrano i cori di entusiasmo che hanno salutato con sberleffi e sfottò Benitez. Qualche esempio. C’è stato il giornalista opinionista che ha detto: “Adesso qualcuno che dimostri attaccamento alla città”. Che significa “attaccamento”? Quali sono stati gli errori di Benitez: quello di aver esiliato un difensore non memorabile ma bandiera della napoletanità (Cannavaro) oppure di non essersi fatto un selfie con la famiglia camorrista di turno come fece Qualcuno (massì, diciamolo pure)? Ma la nota più surreale l’ha offerta qualche scrittore di grido quando si è cimentato nel dibattito “napoletanità versus internazionalizzazione”. In ogni caso, a dimostrazione dell’inarrestabile declino di borghesia e intellettuali c’è lo stridente contrasto con quello che accadde due anni fa, quando andò via Mazzarri. All’epoca, il Corriere del Mezzogiorno di Marco Demarco fece un appello per far rimanere il tecnico di Livorno e lo stesso de Giovanni firmò. Per questo motivo: “Mazzarri ha contribuito a radicare a Napoli qualcosa che appartiene da secoli alla città sebbene spesso svanisca: la fede illuminista. In un mondo, quello del calcio, attraversato da passioni incontrollate e in una città continuamente a rischio di cadute nel fatalismo e nella rassegnazione e dove la presunta predestinazione produce alibi per tutto e tutti, Mazzarri ha dato prova di quali vette si possono raggiungere se si ha consapevolezza di sé e fiducia nelle proprie forze”. Due anni dopo, la borghesia non solo ha rinnegato crocianamente la sua presunta fede illuminista ma si è allineata ai lazzari ultras che già impiccarono donna Lionora in piazza Mercato. Eppure i lumi di Benitez sono stati più luccicanti di quelli mazzarriani a livello progettuale: nuovo centro sportivo, vivaio, stadio all’europea. 

Lo storytelling sarrita. La prova del nove sulla napoletanità perduta e ritrovata c’è già stata con le prime pagine dedicate a Maurizio Sarri, probabilmente a sua insaputa. Max Gallo ha ben sviluppato il tema radical-chic. Sarri e il suo operaismo che fa tanto coalizione sociale di Landini piacciono alle gente che piace (e questo non sarebbe accaduto con l’arrivo del tecnico serbo-fascista amico di Arkan) ma sui giornali della regione ha trovato ampio spazio la ricostruzione delle sue radici napoletane. Ecco il trucco o il segreto della nuova narrazione, o storytelling come usa dire in questi tempi renziani: Sarri è napoletano e questo conta più di ogni altra cosa. E se poi dovesse arrivare alla semifinale di Europa League, sarebbe la favola che diventà realtà, un miracolo del Novecento non un fallimento come è stato per Benitez. Precisazione personale: la scommessa di Sarri mi affascina ma temo che il suo ingaggio porti a quel ridimensionamento che tanti tifosi temono. E qui ci sarebbe pure il tema del paternalismo borbonico del Presidente Aurelio ma questa è un’altra storia.

La terza via esiste? Ultima notazione. A parte l’adozione napolista di Rafa Benitez in termini totali, l’ultimo movimento intellettuale-calcistico risale a cinque lustri fa ed è il noto “Te Diegum”. Un quarto di secolo dopo, colpisce che due intellettuali di quell’onda filosofico-antropologica nonché goliardica si siano divisi su Benitez. Claudio Botti, sul Napolista, ha invitato Gallo a non ammainare la bandiera rafaelita. Guido Clemente di San Luca ha invece giubilato Rafa sul Mattino proprio in nome della napoletanità. Sono andato a rileggere il saggio che lo stesso Clemente scrisse nel 1991 per il volumetto che mette insieme gli atti di un convegno del “Te Diegum”. Il professore tenta di dare una terza via alla napoletanità, rifiutando sia l’oleografia sia la modernità e scrive: “Vollero farci credere che avevamo vinto perché la SS Calcio Napoli si era adeguata ai metodi e ai livelli organizzativi delle grandi società del nord. Insomma sembrò che dicessero: ‘Abbiamo perduto, ma ha vinto comunque il nostro metodo che voi, colonizzati, avete adottato: in sostanza avevamo ragione noi’. E invece ora più diventa critico, più peggiora il quadro umano di Maradona, più diventa palmare che questo Genio del pallone ha consentito di vincere, non sull’organizzazione, ma sulla creatività, anche sregolata”. Di questo passo, prima o poi, come ho letto in un commento di Giulio Spadetta, si porrà la questione cruciale di sottrarre il Napoli alla sua città. In fondo, quando si va allo Juventus Stadium, modello di organizzazione e non di creatività, si vede a occhio nudo che sono in maggioranza pugliesi, siciliani, campani, umbri, liguri, svizzeri, emiliani. E dire che la torinesità, come mi spiegano tutti i giorni i piemontesi con cui lavoro, è sinonimo di “efficienza”.
Fabrizio d’Esposito

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