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Più che dalla cultura del vicolo, Napoli è afflitta dalle scissioni interne. Sarri può riuscire a ricompattare l’ambiente

Più che dalla cultura del vicolo, Napoli è afflitta dalle scissioni interne. Sarri può riuscire a ricompattare l’ambiente

Gli ultimi due articoli di Trombetti lanciano con apparente nonchalance altrettanti temi che non possono non invitare a una profonda riflessione. Parliamo ovviamente dell’involuzione (presunta) del progetto Napoli e del provincialismo della cultura cittadina. Temi che andrebberl di pari passo qualora il presidente della società sportiva avesse deciso di sintonizzarsi sugli umori e la mentalità autoreferenziale del “vicolo”: un atto di chiarezza, un ridimensionamento delle aspettative e degli obiettivi, vista l’impossibilità di diventare pienamente europei.

Nel ripiegarsi su se stessa per lo meno dal 1799, scrive Trombetti, la società napoletana ha eretto barriere verso l’esterno, rendendosi incapace di dialogare con la grande cultura internazionale, come intanto accadeva in altre regioni (ad esempio, la Sicilia di Verga e Vittorini, di Consolo e Brancati, di Lampedusa e Pirandello). Solo Pirandello avrebbe ricucito un ponte con l’Inghilterra e la Francia grazie al suo romanzo dei primi anni Sessanta. Il ragionamento di Trombetti è suggestivo ma viziato da premesse errate: se Napoli si è ripiegata su di sé nel corso della storia, lo ha fatto non per un istinto autistico di autoprotezione, ma perché già all’interno dei suoi confini possedeva quei fermenti accumulati in secoli di dominazioni, colonizzazioni e influenze varie. La riforma culturale di Federico II, la corte aragonese di Valla e Piccolomini, e ancora le sortite di Boccaccio o Caravaggio, e finalmente le opere napoletane di Cortese, Basile, Vico, Sannazaro, Genovesi e poi De Sanctis e Croce: quest’ultimo, scopritore di reliquie letterarie e fondatore di una scuola filosofica il cui impianto perdura ancora nell’università napoletana; l’altro, autore del primo “romanzo sulla letteratura”, volano di quella corsa all’unificazione linguistica e politica dell’Italia risorgimentale. E infine il Novecento – di cui La Capria è solo il più visibile esponente – che ha prodotto romanzi e letteratura di ardita sperimentazione in perfetta sincronia con altrettali opere europee. Dal futurismo di Cangiullo al prototipo postmoderno di Pomilio (“Il quinto evangelio”), dal realismo faulkneriano di Rea allo stile illuministico eppure disintegrato della Ortese (non solo “Il mare non bagna Napoli”, ma anche “Il cardillo addolorato” e soprattutto “Il porto di Toledo”). Per non parlare di Viviani, Eduardo, la Serao o Striano. Tutti anticipatori: altro che la città dei “panni spasi”!

Il vero problema è semmai la plurivocità, l’eccesso, la sovrabbondanza che non trova mai trait d’union e si fa fazione, famiglia, cellula partigiana. Il punto non è dunque la cultura del vicolo, ma l’appartenenza al vicolo e la predominanza della divisione interna. Prendiamo il Napoli di Benitez: mai come in questi ultimi due anni, il calcio nostrano ha offerto prove di spettacolo indiscutibile (Wolfsburg) e di contestazione esagerata. Benitez ha ottenuto trofei insperati (la Supercoppa vinta grazie alla parata fatale del tanto deprecato Rafael Cabral) eppure ha anche mostrato attimi di esitazione e di subordinazione alla proprietà assurdi per un allenatore di caratura internazionale, pur scelto per la panchina di una delle prime tre squadre al mondo. Ma soprattutto è stata la scissione interna alla tifoseria, al giornalismo, alla stessa equipe della squadra (dirigenza, panchina, staff tecnico, giocatori, ufficio stampa) a replicare quel modello a causa del quale Napoli ha sofferto di isolamento culturale. Non per arretratezza, anzi! Ma per fagocitazione interna. Sono più bravo di te perciò tu non devi emergere. Ecco il motto che ha fregato la società, a maggior ragione quando uno straniero l’ha guidata.

Per questo, Maurizio Sarri potrà fare molto. Non tanto ridimensionare le aspettative: e perché, poi? Il quinto posto di oggi ci basta? È troppo? Non meritiamo di più per diritto divino: ma abbiamo le qualità indubbie per fare di più. Sarri non è “semplicemente” Mihajlovic. È allenatore operaio, attento allo spogliatoio ma soprattutto al lavoro mentale e fisico costante. Proprio quello che è mancato al Napoli, che forse ha goduto troppo degli allori dei grandi nomi internazionali, dimenticando che perfino Masaniello perse mordente sul popolo da cui proveniva, per eccesiva fede nel proprio carisma.

Sarri, che guidò l’Empoli neopromosso a una vittoria esemplare per tattica e strategia, è l’allenatore italiano che può rafforzare e compattare l’ambiente napoletano, senza per questo escludere a priori l’ambizione di importanti trofei. Fa rabbia, lo scrivevo ieri su facebook riportando un vecchio articolo sul match contro l’Empoli, che l’altrove incoerente De Laurentiis abbia oggi saputo azzeccare ancora una volta la scelta più opportuna.
Angelo Petrella

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