
Ho cominciato a frequentare lo stadio a metà anni 90. La mia prima assoluta al San Paolo è un Napoli-Milan 1-0 della primavera ’94, gol di Di Canio. Non ho ancora compiuto dieci anni, mi accompagna il primo dei miei fratelli, Enrico. Il catino di Fuorigrotta è una bolgia. Della grande rivalità coi rossoneri degli anni 80 rimangono solo (freschissimi) ricordi. Loro, con Capello in panchina, continuano a vincere in Europa e in Italia. Noi, col giovane Lippi, ci abituiamo a fare da rampa di lancio verso altri lidi e ci beiamo di un sesto posto in campionato. Sono talmente sprovveduto in fatto di calcio che molte di queste cose, partita in corso, le colgo appena, me le spiegano dopo. Ciò non toglie che la vittoria è un carnevale incredibile e per me vedere una tale massa umana rumorosa e festante è uno spettacolo senza precedenti.
Alla stagione successiva lego quella che ritengo ancora tra le delusioni sportive più cocenti della mia vita. Ultima di campionato, il Napoli incontra il Parma in casa. Lo stadio è caldo come un girone dantesco. Veniamo da un’annata tribolata, con l’avvicendamento in panchina tra Guerini e Boskov. Ci giochiamo nei 90 minuti finali l’accesso alla Coppa Uefa. Vinciamo 1-0, il San Paolo è in festa per un piazzamento europeo. Ci abbracciamo, cantiamo ‘o surdato nnamurato, quelle cose lì. Quando a Fuorigrotta la partita è già finita, arriva la notizia che a Padova l’Inter vince con un gol di Delvecchio all’ultimo minuto. È ancora epoca di radioline e passaparola, ma lo stadio e le 70mila anime (o quante ne erano) che contiene ammutoliscono in un istante. Chi se lo scorda.
In questi giorni leggo e sento che le contestazioni alla squadra sono legittime in tutte le loro forme. Perché era lecito aspettarsi di più da questo campionato e quindi è giusto pure fischiare al decimo minuto del primo tempo di una gara casalinga, a ottobre come oggi. Sono in tanti a pensarlo. Eppure vent’anni fa, quando nel giro di un lustro siamo passati dal vincere gli scudetti al galleggiare nella metà alta della classifica (lo step verso la colonna destra era solo questione di tempo), nessuno credeva che fosse necessario scatenare l’Armageddon al San Paolo. Lo stesso pubblico che aveva esultato da pazzi per il Tricolore era pronto a commuoversi per un sesto posto valido per la Coppa Uefa. E poi per un bel gol di Beto in semifinale di Coppa Italia. Non c’era neanche bisogno di discuterne. E non c’entrano Palummella o il tifo folkloristico: era una città intera a vivere queste emozioni.
“Il calcio è fantasia, è un cartone animato per adulti”, diceva Soriano. “Il calcio è un gioco e tu sei un uomo fondamentalmente triste” rimprovera il presidente del club al difensore Antonio Pisapia ne “L’uomo in più” di Sorrentino. Il pubblico del calcio, oggi, ha perso l’ingenuità. È tutto un Pisapia. L’ambizione è sacrosanta, il diritto al dissenso pure, l’ostilità è un sentimento umano. Non è che nel San Paolo del passato mancassero le contestazioni, altroché. E non è neanche un fenomeno della sola Napoli, è epocale e trasversale, ma questo ci consola fino a un certo punto. Perché è una roba incredibilmente infelice. C’è già abbastanza spazio nelle nostre vite per il rancore. Il calcio per essere bello ha bisogno di altri occhi. Altrimenti ti riduci a ritenere offensivo un quarto posto, quando festeggiavi per un sesto a cinque anni dall’ultimo scudetto.
Roberto Procaccini