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Se Napoli la smettesse di piangere e riscoprisse il suo cinismo

Se Napoli la smettesse di piangere e riscoprisse il suo cinismo

Appena un napoletano si muove escono le lacrime: non c’è vita, non c’è opera, che non ne abbiano, e se anche qualcuno non fa nulla, come insegna Bovio: “Tu ca nun chiagne e chiagnere me fai”, irrimediabilmente. E allora uno si chiede ma perché Napoli piange sempre? Quasi per un contrappasso rispetto all’allegria, l’enfasi della messa in scena, il risentimento secentesco, il teatro, la sceneggiata, le canzoni. È una catena di montaggio che prevede la zona lacrime, un intero alfabeto che si declina col pianto, prendiamo la EMME di Malafemmena – “Chist’uocchie ‘e fatto chiagnere / Lacreme e ‘nfamità” – e di Maradona: lo abbiamo visto troppe volte con la faccia segnata e gli occhi lucidi lasciare campi e non sempre per la gioia, in una contaminazione linguistica che da Buenos Aires arriva a Napoli. Quanto ha pianto Maradona? Quanto ha pianto Napoli? Quando smetteremo di piangere? Quando non drammatizzeremo?

De Laurentiis che si lamenta di Platini si aggiunge a una lunga fila che da Pulcinella arriva ad Eduardo passando per Totò, sfruculiando “la bella ‘mbriana” di Pino Daniele che naturalmente lo ha visto piangere, come la “Voce ‘e notte”, e diventa finalmente napoletano. Potrei continuare a lungo ma verrebbe fuori una antologia del pianto napoletano – che prima o poi farò – e sicuramente tra di voi ci sarà chi mi ricorderà altre lacrime che racchiudono storia e umanità ma il punto è un altro: l’inclinazione di un popolo. Che – chiariamoci – è una gran bella cosa sapersi sciogliere in pianto (e sangue) – ecco un’altra citazione da Caruso a Dalla – fino a credere di affogare.

Se fossi Erri De Luca strologherei sul verbo, ma voglio fare un discorso diverso, anche perché dal pianto al rim-pianto è un attimo, anzi spesso le due azioni si fondono e non occorre la presenza delle lacrime per rim-piangere. Si piange un po’ dovunque, direte voi, perché dobbiam smettere proprio nel calcio? È che c’è modo e modo di piangere, a Napoli è diventato un irritante metodo per leggere la realtà, un magistero stilistico, un balletto di lingua che ha persino dei canoni, per alcuni un antidoto veloce, per altri l’unico anticorpo possibile. Ad ogni conservatorismo, ingiustizia, ad ogni collera, malumore, andrebbe contrapposta l’ironia – di cui la città pure è piena –, al posto del diasillo, ci andrebbe un meticoloso codice di giudizio che parte dalla corretta analisi delle proprie azioni senza l’omissione sofialorénesca delle colpe. Ma a Napoli c’è anche altro, un cinismo che è sottovalutato e che andrebbe, invece, capitalizzato, fino a farne filtro, eleganza reazionaria, aristocratico mezzo, conservando lo scetticismo naturale verso tutto, compresi i propri santi e affetti, ovvio.
Marco Ciriello

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