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Manuel Pellegrini, lo charming man con l’ombra di Pinochet. Legge, ama la bellezza nel calcio e in panchina non si sbraccia: «Non sono un clown»

Manuel Pellegrini, lo charming man con l’ombra di Pinochet. Legge, ama la bellezza nel calcio e in panchina non si sbraccia: «Non sono un clown»

Gli Smiths sono gruppo musicale nato a Manchester negli anni 80, tra i primi successi vi è il singolo “This charming man”. La band era equamente divisa tra tifosi del City (Marr e Joyce) e dello United (Morrissey e Rourke). Nessuno dei quattro immaginava che circa trent’anni dopo, una loro canzone, sarebbe stata fonte d’ispirazione per i sostenitori dei citizens. Già, perché l’attuale allenatore del Manchester City, Manuel Pellegrini, per il popolo dell’Etihad è un uomo affascinante.

Il nonno di Manuel, Giulio, partì da Picerno in Basilicata verso il Cile, precisamente a Santiago dove Manuel è nato e cresciuto in un ambiente profondamente conservatore e rigoroso. La madre Silvia Ripamonti era una sostenitrice del regime di Pinochet, il padre Emilio, ingegnere, avrebbe voluto che Manuel seguisse i suoi passi e solo quando è diventato famoso a livello internazionale, si è interessato alla carriera del figlio.

Pellegrini ha ereditato diverse caratteristiche paterne – come l’autodisciplina – su queste ha fatto affidamento per portare a termine il suo percorso di studi e conseguire la laurea in Ingegneria Civile alla Pontificia Università Cattolica del Cile. Questo titolo di studio consente di annoverare El Ingegniero, così è soprannominato, in quella ristretta cerchia di académicos del futbol, al fianco del Doctor Socrates, dell’odontoiatra Hugo Sanchez e pochi altri.

Studiare fu una libera scelta, i genitori non gli imposero nulla, inizialmente voleva diventare medico ma fallì il test d’ingresso alla facoltà di medicina. Pellegrini così decise di iscriversi ad Ingegneria “Mi ci sono voluti otto anni per ottenere la laurea, non sei come avrei dovutodissein quel momento non vi era alcuna considerazione per gli studenti che praticassero sport. Ho studiato in ‘Cattolica’ e giocato nell’Universidad del Cile e sai cosa significa. Non è stato facile per me essere un giocatore a quei livelli e studiare contemporaneamente. Il mio più grande rivale è stato il calcolo strutturale.” I suoi studi hanno influito molto nel suo modo di allenare, l’ingegneria è una disciplina che ordina la mente e aiuta a pensare in maniera logica. Prima però di intraprendere la carriera di allenatore, nel 1984 entra con il padre Emilio e col fratello Pablo, architetto, nella società “Constructora y Arquitectura Pellegrini, fondata dai Pellegrini nel 1910.

L’impresa ebbe un ruolo importante nel post-terremoto che colpì il Cile il 3 marzo 1985 uccidendo 177 persone, infatti diedero un grande aiuto nella ricostruzione delle case; non tutte belle ma funzionali, come quella del suo amico medico Alejandro Orizola, oggi a capo dello staff medico del Manchester City.

Pellegrini qualche mese dopo avrebbe detto addio al calcio giocato. Dopo 451 presenze e 13 anni di fedeltà assoluta all’Universidad de Chile, capì che non poteva essere più utile alla squadra, racconta che in particolare ci fu un episodio decisivo: “Stavamo giocando in Coppa del Cile contro il Sandino, il nostro portiere deviò un tiro, io saltai di testa per colpire la palla ma fui anticipato da un ragazzino di 17 anni. Quel giorno decisi di smettere.” Quel giovane era Ivan Zamorano.

L’attuale del tecnico del City ha debuttato nel settembre 1973, lo stesso mese il governo socialista di Allende fu rovesciato da un colpo di Stato delle forze armate del generale Pinochet. A distanza di 41 anni, Pellegrini ha ammesso che in quel periodo era un dissidente del governo di Allende ed ha partecipato a diverse manifestazioni di protesta. “Il paese era in un momento complicato e lo ero anch’io”.

Nell’Universidad de Chile giocava come difensore, molto alto (quasi 1.90), ma per la sua poca dimestichezza nel colpire la palla unita a una scarsa sicurezza trasmessa ai compagni, fu soprannominato Peligrosini”. Uno dei suoi allenatori, Donato Hernandez, lo chiamava “Gomero”, una sorta di ornamento inutile. Tuttavia Pellegrini agli allenamenti era il primo ad arrivare e l’ultimo ad andarsene, fedele alla sua disciplina spartana con una volontà di ferro, nonostante soffrisse di osteomielite. «I miei compagni chiamavano il mio piede destro “empanada” (panzarotto) dichiarò intervistato da El Pais – era frutto della malattia. Mai però ho cercato scuse se non colpivo bene la palla, mai. Mi sono sempre impegnato al massimo, resto ampiamente soddisfatto della mia carriera.»

La bacheca di Pellegrini come giocatore è piuttosto povera, solo una Coppa del Cile nel 1979. Maggiori soddisfazioni sono arrivate una volta intrapresa la carriera di allenatore. Il cileno inizialmente non era molto convinto: «Se qualcuno mi chiedesse cosa volessi fare in una prossima vita, non direi l’allenatore. Io avrei voluto essere un artista. Uno scrittore, pittore, scultore. Vorrei fare cose che non conosco oggi, cose che vorrei conoscere. Penso che sia il motivo per cui finisco per leggere tanto, perché in questo modo vivo altre vite». A fargli cambiare idea ci pensò il suo mentore ai tempi dell’Universidad del Chile: Fernando Riera, medaglia di bronzo ai campionati mondiali del 1962 come allenatore del Cile e finalista nella Coppa Campioni nel 1963 alla guida del Benfica di Eusebio. Quando si parla del suo maestro Pellegrini diventa ancora più serio, dice che da lui ha imparato a semplificare il calcio, il rispetto per il giocatore e la buona gestione della palla. «Come un soldato che segue il suo generale prima del combattimento. Mi sento totalmente identificato con lui – dopo una pausa, che ripete sempre prima di rispondere, aggiungePrima di tutto la sua maniera d’intendere la professione. Fare il lavoro con semplicità, professionalità e personalità. Convincere il giocatore attraverso il gioco, senza molte ore di conversazione, ma col lavoro sul campo. Convincere, non imporre.

El Ingegniero ha proseguito la sua preparazione a Coverciano nel 1985, ma sopratutto a Lilleshall in Inghilterra nel 1988 con incontri molto proficui; tra gli altri Sir Alex Ferguson che all’epoca sedeva da due anni sulla panchina dello United ed era sotto pressione. Sicuramente fu molto formativo, ma in quell’anno Pellegrini era alla sua prima esperienza come allenatore dell’Universidad e per seguire questo corso lasciò ai suoi collaboratori la gestione delle ultime 4 partite. Un disastro. La squadra le perse tutte, fu condannata alla retrocessione (per un gol nella differenza reti) in seconda divisione per la prima ed unica volta nella storia della società. Il riscatto avvenne l’anno seguente con immediata promozione.

Piccoli incidenti di percorso, sopratutto per chi si considerava un “cane pazzo”, ed appesi gli scarpini al chiodo doveva adattarsi a questa nuova veste. “Per diventare allenatore devi lavorare molto su te stesso, rimuovere quei lati negativi. La mia è una mentalità razionale, più che emozionale, ma ho provato a diventare più passionale, a curare più le relazioni. Quando ho iniziato ad allenare mi aspettavo troppo in termini di approccio fisico, tecnico e tattico.”

Dopo 16 anni in giro per il Sud America e due campionati vinti con San Lorenzo e River Plate, nel 2004 arriva in Europa. Pellegrini si colloca così tra i grandi uomini cileni che hanno vissuto e riscosso più successi fuori dai loro confini geografici. Come Raul Ruiz, come Alejandro Jodorowsky, come Roberto Matta e Vincente Huidobros, il tecnico del Manchester City ha dovuto esporre e imporre la sua idea di bellezza molto lontano da casa. Il suo trasferimento sollevò scalpore in Cile, sono pochi gli sportivi cileni di successo. «Il mio non è un paese di atleti – disse la perla chilena del banquillo – con l’eccezione del calcio e un po’ di tennis con Rios (e Ayala che giocò la finale di Coppa Davis nel 1976 contro l’Italia). Non è una nazione dove lo sport è praticato con entusiasmo né vi è una politica dello sport adeguata, le priorità sono altre».

Alla guida del Villarreal il tecnico cileno è riuscito a unire la filosofia di gioco europea che predilige lo “spazio” e quella sudamericana che dà maggiore importanza al pallone. «Ai miei giocatori dico sempre el que lleva la pelota, lento; el resto, muy rápido. Se quello che porta la palla va a 100, non può sviluppare la sua tecnica e il resto della squadra non può offrire alternative.» Il suo concetto di mobilità si basa sul llegar non su estar. Manuel Pellegrini sintetizza la sua filosofia di gioco in una frase: jugar bien es ganar. “Se per Aragones il calcio è ganar y ganar y volver a ganar, la sua idea è: attaccare, attaccare e tornare ad attaccare o balon y balon y voler al balon? – gli domandò un giornalista del Pais – “Sono con Luis rispose il tecnico cileno – Il miglior modo di vincere è giocare, avere il possesso ed attaccare. Almeno il più ragionevole. Se mi dice che gioco male e vinco, bene, accetto, però alla terza partita, giocando male, perdo sicuro. Vincere è fondamentale però si vince giocando bene”.

Tutto passa per il pallone, già dalla preparazione estiva, la forma fisica si acquista con la palla e non può essere sostituita. Però tutte le teorie sono valide. «Questa professione è una coppa di cristallo che si può rompere in qualunque momento: non esiste la verità e uno non può sedersi in cattedra per aver vinto una partita». Non si arroga il diritto di insegnare calcio, ma più umilmente si ispira a chi ha prodotto bel gioco come Rinus Michels, l’uomo che ha concepito il calcio totale. Infatti uno degli scopi di Pellegrini è coltivare la bellezza. Una rara avis? «La bellezza è importante, per fortuna sono stato in grado di combinarla con i titoli perché altrimenti starei stato bollato come romantico. Non sono d’accordo con Capello, la bellezza nel calcio non è una sciocchezza. Il calcio soffre di mancanza di spettacolo. lo rispetto però credo che la gente va vedere i giocatori che fanno qualcosa di diverso col pallone, non che corrono su e giù».

Propone un gioco efficiente e creativo. Generalmente gioca con il 4-4-2 un sistema che dà equilibrio, permette di essere propositivi senza scoprirsi eccessivamente. Ti consente di avere dei meccanismi variabili durante la partita quando vedi che ci sono alcune cose che vuoi cambiare. Gioca senza esterni fissi, così il difensore avversario non sa chi marcare. Negli ultimi 25 metri la libertà per gli uomini di Pellegirini deve essere totale. Le sue squadre puntano a costruire più che a distruggere. Non è tra quei tecnici che hanno la priorità di demolire il gioco avversario con marcatura ad uomo e falli, questo è un tipo di gioco noioso. Si vince giocando bene con un calcio sin trampa (senza inganno, volendo parafrase i libro di Menotti, altro suo maestro). Chi non gioca bene, pensa solamente a vincere e guarda unicamente al risultato viene bollato spregiativamente come resultadista.

Da buon ingegnere sa che per costruire qualcosa di solido occorrono pazienza e cautela, evitare che errori fatali su grandi progetti possano degenerare in tragedia. Vuole costruire qualcosa di duraturo, al servizio anche di coloro che verranno dopo.

Ha delle sue regole. Sa bene che nella professione di allenatore, come in altre, è facile confondere il potere e l’autorità. Sono cose distinte. Il primo è legato alla posizione, l’autorità invece si basa su un principio di leadership che si ottiene quando si convince la gente con quello che si fa e perché. Ma è difficile mantenere questi convincimenti. Il calcio può distruggerti in ogni momento, per un cattivo risultato, per un problema mediatico o personale, e il calciatore guarda al tecnico per cercare riparo.

Sono proprio le relazioni umane uno dei segreti di Pellegrini, sono più difficili del 4-3-3. La sua voce profonda, misurata, ricorda un vecchio professore. Sembra un esistenzialista. A molti dà l’idea di essere distante dai calciatori con un atteggiamento arrogante. «Al contrario, sono molto vicino. Cerco di sapere tanto su di loro, senza immischiarmi nella vita privata. La chiave per costruire una squadra è conoscere la loro personalità.» Pellegrini ha una grande cultura umanista (legge molto, studia le lingue e gioca a golf), sicuramente dettata da curiosità e sete di conoscenza, ma è un qualcosa utile alla sua professione. L’allenatore che sa solo di calcio avrà grandi difficoltà nel comunicare con un gruppo composto da persone diverse con modi di pensare spesso opposti.

Appare spesso rilassato durante la partita, lo accusano di mancanza di intensità. «Io do istruzioni dalla panchina, ma non sono un clown. So anche che i giocatori non ascoltano troppo nel corso del match e nemmeno a fine primo tempo. Come allenatore so che si vince la partita in settimana sul campo di allenamento. Il tecnico è il 95% di una squadra durante la settimana, ma il giorno della partita il 95% è fornito dai giocatori.»

A Madrid nel 2009, Florentino Perez e Marca (con una durissima campagna di stampa), non gli hanno dato tempo, nonostante i 96 punti, a 3 punti dal Barcellona stellare di Guardiola. Pellegrini sa che il mondo del calcio è bipolare e schizofrenico. Come si sopravvive? «Con equilibrio e convinzione in quello che si fa. Bisogna sapere selezionare. Per esempio io leggo molte notizie e pochi commenti, solo della gente che so di dover leggere. Bisogna sapere come filtrare le critiche ricevute in ogni partita.»

Dopo il Real, ci furono 3 anni splendidi a Malaga, poi nell’estate del 2013 arrivò il Manchester City

Sheikh Mansour / went to Spain / in his Lamborghini / brought us back a manager / Manuel Pellegrini

E fu subito Premier League.
Alfonso Noël Angrisani

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