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La faccia da Italsider di Ventura, uno che apre il libretto delle istruzioni e ne viene a capo

La faccia di uno cresciuto all’ombra di una fabbrica, duro come un muro di cinta, e che fuma lento quando si incazza. Giampiero Ventura è la periferia che non si lamenta ma costruisce. Potrebbe essere un commesso viaggiatore, un caporeparto dell’Italsider, o anche un commissario della omicidi. Uno capace di rimontare tutto quello che gli passano: che siano calciatori o squadre, assassini o elettrodomestici. Si mette lì, apre il libretto delle istruzioni, la cartella del caso o il modulo da decifrare, e ne viene a capo. A volte in fretta a volte meno, ma il risultato arriva, statene certi. Sanguigno, e con un linguaggio senza mediazioni. È proprio da come parla che comincia la sua diversità, perché quando lo senti ti appare il suo mondo che è fuori dal calcio, scatenando un effetto valanga che diventa simpatia, e dopo empatia. E poi finisce che gli credi.

Se perdi con uno così, come è capitato al Napoli l’altra sera, scopri che il “ci può stare” può avere anche una accezione non dietrologica. Perché Ventura è uno che viene da lontano, e che no, non si tiene niente. Né schemi, né tiri in porta. Alterna una espressività aggressiva, una capacità da sindacalista Fiom a quella da padre che ti legge le favole, o da ingegnere che ti spiega il funzionamento di una macchina, proprio come il suo calcio: oscilla tra estremità. Che sia il cappio al collo del derby con la Juventus, o il nodo sciolto al San Mamés contro l’Athletic Bilbao, che, per spiegarlo, Ventura, tira fuori un ricordo e Darmian capisce l’impresa. Comprende il traguardo. Vede il tragitto. «Ne ho parlato con Matteo, prima e dopo la partita, gli ho ricordato quel discorso che abbiamo fatto ad Ascoli il giorno del nostro esordio in serie B. Eravamo in uno sgabuzzino, c’erano 40 gradi». Ventura non dimentica nulla, appartiene agli artigiani del calcio che non hanno bisogno né di barocchismi linguistici né di maschere, è uno che va dritto al punto. Perché nessuno gli ha mai regalato niente. Appartiene a un mondo che deve sparire da anni, e invece – per fortuna – è ancora qui e impartisce lezioni. È uno che ha bisogno di tempo, è a Torino dal 2011, ed ha fatto un grande lavoro. Tutto in crescita, tutto su calciatori giovani o a fine carriera, che meritavano di più e hanno trovato lui.

Adesso tutti vedono l’impresa, ma Ventura è abituato ad altro, più al silenzio che al clamore, più alle critiche che alla gloria. E, infatti, non perde la testa. Rimane quello di sempre, un po’ Bagnoli un po’ Mazzone, il resto è Genova, con quella faccia lì, quella di chi ha visto davvero la periferia del calcio, di chi è arrivato in serie A (Cagliari 1998-99) con cinquant’anni sulle spalle e un mucchio di partite lontano dal centro. Quelli come Ventura non vanno in conferenza stampa a giustificarsi perché anche quando perdono non accampano scuse, lo so che vi sembra un dettaglio ma non lo è. È un ricercatore, e prima di Torino è stato a Bari, lì ha trovato “il modo” di stupire e sfangarla.

Vi risparmio i suoi giri nell’Italia minore, una carriera da fiume, fatta di corse come quella dell’anno scorso col Toro e poi di curve frenanti e delusioni come quella con la sua Sampdoria portata a un tocco dalla promozione in A: «Quella scelta ha frantumato la mia carriera», disse anni fa, e si sbagliava. Dopo, ha capito che le cose mancate, a saperle guardare ti insegnano a divertirti, e divertendoti a divertire. Provando la cosa con un pallone, diventa la ricerca dell’azione migliore: venti passaggi senza perderla. Se ci arrivi in porta e la metti anche dentro allora diventa l’azione perfetta. Se a questo aggiungi delle ali che ti portano a spasso il pallone senza perderlo, aumenti le probabilità. Ma prima giochi poi parli, fa parte delle regole venturiane. Prima cerchi l’azione migliore poi si vede il resto. Prima ti salvi, dopo pensi alla vetta, prima ti applichi fino a non averne più, dopo si ragiona sul dove andare col pieno. Ventura disse a Beppe di Corrado, un po’ di tempo fa, che questo suo metodo era di «far frullare il pallone». Trasformando la sua squadra in un elettrodomestico: stile, semplicità, efficienza. Che lui ha portato in mezza Italia: da Udine a Messina. Poi a Torino, gira e rigira, prova e riprova, ha preso anche a frullare gli avversari.
Marco Ciriello

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