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Guardo il gruppo Empoli e mi chiedo quando il Napoli (tutto, anche i tifosi) ritroverà il suo cuore

Guardo il gruppo Empoli e mi chiedo quando il Napoli (tutto, anche i tifosi) ritroverà il suo cuore

La partita è stata molto buona nei primi dieci minuti. Poi è diventata brutta, anzi bruttissima. Ma piuttosto che analizzare gli errori e le carenze del Napoli voglio provare a prenderla alla larga e a guardarla sotto un altro punto di vista: quello dell’Empoli. Dopo sei stagioni di purgatorio, la squadra toscana è tornata in serie A. Ricordo un servizio televisivo di fine agosto sul passaggio nella serie maggiore, in cui i giocatori venivano intervistati nella sede del loro ritiro pre-campionato, un alberghetto spartano e quasi umile, con un piccolo bar e pochi tavolini all’aperto. Prima del fischio di inizio, oggi, mi ha colpito una cosa: i nomi dei giocatori. Erano quasi tutti italiani. Con questo non voglio senz’altro ricorrere al vecchio refrain della diaspora dei calciatori campani o della migliore intesa tra connazionali; però mi sembra di poter affermare che quando si valorizzano i ragazzi, quando si investe nella propria cantera, quando si dà fiducia alla stessa squadra che ha consentito il passaggio dalla serie B, quando si contribuisce a consolidare il legame dei giocatori al di là del campo da calcio, si ottiene sicuramente qualcosa in più. Quel qualcosa che poi magari a livello di statistiche è imponderabile. E ti fa dominare per settanta minuti in uno stadio avversario da quasi sessantamila posti.

Certo, tutti i giocatori sognano alti ingaggi, copertine di giornali, palloni d’oro e squadre da Champions League: è naturale ambizione di un professionista quella di abbandonare il nido, salire di livello e militare nei campionati più prestigiosi. Ma proprio per questo è dovere di un club rintracciare i giovani più promettenti e rinfocolare continuamente il vivaio. Non solo per le plusvalenze da ricavare in caso di vendita: ma perché il gruppo allevato dal club, che cresce con il club, diventa esso stesso il cuore della squadra. Non la proprietà, non l’allenatore e nemmeno i tifosi. Ma il gruppo.

Se Benitez andrà via a fine stagione è chiaro che molti giocatori partiranno con lui; altri se ne andranno lo stesso. L’esperienza nel Napoli sarà servita per affinarsi, studiare il calcio italiano, magari mettersi in mostra: avranno fatto parte del club soltanto per un po’. Qual è allora, in tutto questo via-vai, il cuore del Napoli? Uno stadio non di proprietà, burocraticamente incatenato, spesso inagibile e soggetto a disservizi? I grandi campioni destinati a partire, come fu Cavani? Il capitano? I tifosi, che fischiano la squadra a ogni passaggio sbagliato, quando il loro dovere (e lo dico senza alcuna forma di provocazione) sarebbe quello di incoraggiare sempre e comunque, a parte prevedibili e temporanee incazzature? Il progetto del Napoli è per ora indecifrabile, fatto di tanti nomi di talento (come De Guzman, fischiato all’arrivo e ora imprescindibile salvatore della zona Cesarini) e di uno o due fuoriclasse. Che indubbiamente ti consentono di rimontare o di compiere il guizzo salvifico negli ultimi minuti di gioco. Ma che non bastano per guardare al di là del campionato in corsa.

Questa è la colpa più grande attribuibile al presidente De Laurentiis, che pure ha altri meriti. Non dobbiamo dimenticare da dove veniamo e come, in pochi anni, siamo tornati a lottare per i vertici altissimi della classifica. Ma finché non rifonderà il suo progetto, come si sforza di gridare compassatamente Benitez, il Napoli non troverà mai il suo cuore. E, purtroppo, nemmeno i suoi tifosi.
Angelo Petrella

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