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Fellaini, calciatore per volere di papà che lo strappò ai 10mila metri

Fellaini, calciatore per volere di papà che lo strappò ai 10mila metri

Sei anni fa, preliminare di Champions League, terzo turno. Rafa Benitez, allenatore del Liverpool, studia le relazioni dei suoi collaboratori sullo Standard Liegi e legge che deve guardare con una certa attenzione il numero 27. Un ragazzo alto e magro, capelli enormi, un centrocampista. Uno che, c’è scritto, romperà le scatole a Gerrard e Xabi Alonso. Ha 21 anni e si chiama Marouane Fellaini. Di quella squadra, che in difesa schiera il brasiliano Dante e che può contare anche su Witsel, Defour e De Camargo, questo Fellaini si scopre essere l’anima. Il Liverpool di Rafa passa il turno dopo lo 0-0 a Liegi e vincendo 1-0 ai supplementari ad Anfield Road. Quella sera il nome di Fellaini entra nel leggendario database di Benitez. Pochi giorni dopo saranno i dirigenti dell’altra squadra di Liverpool, l’Everton, gente che quella partita l’ha guardata bene, a far firmare Fellaini. Con 21 milioni di euro diventa l’acquisto più caro della loro storia, eppure quando lo rivenderanno al Manchester United (estate 2013) riusciranno pure a guadagnarne all’incirca dodici. 

La storia di Marouane Fellaini è legata a quella di suo padre, Abdellatif, ex calciatore professionista marocchino, portiere del Raja Casablanca e dell’Hassania Agadir che un giorno arriva in Belgio per giocarsi una carta all’estero, al Racing Mechelen dove ha un contatto. Abdellatif è di Tangeri, nell’antichità porto cartaginese, poi città neutrale e libera sotto l’amministrazione internazionale durante la seconda guerra mondiale. Quando però Fellaini padre arriva nelle Fiandre, scopre che il suo vecchio club non ha spedito la documentazione necessaria per il tesseramento. Più passano i giorni più in Marocco si irrigidiscono. Alla fine gli negano il nulla osta al trasferimento. Comincia un inferno burocratico da cui i Fellaini non riescono a venire fuori. Abdellatif si arrende. Con sua moglie si trasferisce a Etterbeek, il luogo d’origine del fumettista Hergé, il papà di Tin Tin. Ed è nella città di Tin Tin che nasce Marouane, il 22 novembre del 1987: da 4 mesi il Napoli ha lo scudetto sulla maglia. 

A Etterbeek, il signor Fellaini si mette a fare l’autista. Guida i tram e i bus nella provincia di Bruxelles. Ma quando il turno finisce e torna a casa, si dedica al piccolo. Gli mette il pallone tra i piedi e lo addestra con ferocia. A 7 anni Marouane è nelle giovanili dell’Anderlecht, l’allenamento familiare prosegue anche dopo il trasferimento a Mons. Marouane è addestrato a diventare un atleta. A scuola deve andarci a piedi, e non camminando, di corsa deve andarci, mentre il suo papà lo segue in bici, qualche centinaio di metri più dietro. La sera poi, a casa, spunta il pallone. Marouane calcia, papà para. Quando cresce, il ragazzo vorrebbe dedicarsi all’atletica, corre i 10mila metri, avrebbe pure il fisico giusto. Papà, con la frustrazione della sua carriera spezzata, lo trattiene dentro un campo di calcio, tanto più che a 17 anni arriva il primo contratto vero, con lo Standard Liegi.

Paul Schraepen, a quei tempi allenatore nell’Academy dell’Anderlecht, ha ricordato: “Fellaini faceva impressione. Correva sempre. Non lo riuscivi a fermare. È una sorpresa che sia diventato un calciatore in Premier League, c’erano tanti ragazzini più bravi di lui”. Subito nel giro delle nazionali del Belgio, Marouane ha avuto nel tempo la possibilità di giocare per il Marocco, paese a cui è rimasto orgogliosamente legato. Fathi Jamal, in seguito allenatore della squadra olimpica, gli fece capire che non avrebbe trovato spazio: “Sei troppo alto, non puoi giocare a calcio”. All’Everton, dopo quella famosa partita di Champions contro il Liverpool di Benitez, Fellaini è diventato il pupillo dell’allenatore Moyes. Al suo debutto in Inghilterra stupisce per la straordinaria capacità nel colpire di testa (anche saltando contro Kompany, oppure contro Vidic) e per la sua abilità nell’attraversare il campo da un’area all’altra. In campo è una rivelazione, fuori tanta tristezza. “Quando sono arrivato in Inghilterra – racconterà Fellaini ai giornali inglesi – ho trovato che la vita fosse particolarmente difficile. Ero giovane. La mia famiglia era rimasta in Belgio, vivevo da solo, parlavo malissimo l’inglese. L’Everton mi ha aiutato tanto. La vita nel Cheshire era quieta e poi a me nel tempo libero piace stare in casa e riposare, mi metto in poltrona e guardo Sky”. 

Le sue difficoltà con la lingua lo danneggiano anche in campo. Fellaini prende 10 ammonizioni nelle prime 17 partite con l’Everton, molte per ingenuità, al punto che la società gli fissa un appuntamento con Hackett, il capo degli arbitri. Va a chiedere un po’ di comprensione: nelle successive 16 partite i cartellini gialli saranno solo 3. Bisogna aggiungere che Fellaini si fa volere bene. È un ragazzo semplice. A Liverpool girava con una Vauxhall Corsa, tra compagni che esibivano Bmw e Ferrari. “I soldi per me non sono importanti. Ho sempre avuto una vita normale. Anche se gioco in Premier, sono rimasto un ragazzo a cui piace giocare a calcio. Ho i piedi a terra”, spiegò tempo fa in una intervista. 

Igor De Camargo, suo compagno di squadra in quel vecchio Standard Liegi, una volta disse: “Se c’è un punto debole nel gioco di Fellaini, allora quello è il passaggio, nel senso che non ha proprio i piedi di Ronaldinho. Ma se devo averlo per avversario, allora preferisco averlo al mio fianco”. È importante sottolineare che dopo Fellaini, De Camargo non ha mai più segnato tanto. In un’altra intervista rilasciata al Daily Mirror nel novembre del 2012, di sé Fellaini disse: “Il mio idolo da ragazzino era Zidane, perché pareva che giocasse in giardino, faceva sembrare tutto semplice. Ma io mi sento un centrocampista difensivo. Negli anni gli allenatori hanno pensato di me che potessi essere un numero 10, un numero 8, un numero 6, così ho finito per giocare un po’ dovunque loro volessero. Ma il mio lavoro è davanti alla difesa, mi piace stare là, perché là succede tutto davanti a me. Giocare spalle alla porta non è la mia posizione, se me lo chiedono lo faccio, non possono chiedermi di farlo con piacere. Non ho la smania del gol, non è una mia ossessione. Altri ancora sostengono che sia più bello difendere. Io non dico neppure questo. Secondo me nel calcio di bellezza non si dovrebbe mai parlare, la bellezza non c’entra, il bello del calcio è vincere. Se giochi bene e non vinci, a che cosa ti serve?”. 

Oggi a Manchester non ce l’hanno con lui, ce l’hanno con quello che rappresenta. È stato il grande investimento dell’estate scorsa di Moyes. Nei pensieri dei tifosi dello United, Fellaini è l’immagine del fallimento del vecchio manager. Vogliono voltare pagina con Van Gaal. Ma a Liverpool Fellaini era abituato a essere un idolo. “Mi piace che i tifosi apprezzino il fatto che in campo voglio dare tutto, senza risparmiarmi. Quando cammino in strada – diceva a Liverpool – certe volte la gente mi avvicina, e se vogliono parlarmi allora facciamo quattro passi insieme”. Se poi qualcuno gli chiede dei capelli, di quel simbolo afro che conserva, con grande semplicità Fellaini spiega che li taglia più spesso d’inverno. “Perché con la pioggia sono un problema, mi fanno vedere peggio le cose che succedono in campo”. Una volta un giornalista inglese gli domandò: “Li curi molto i tuoi capelli?”.  E lui rispose: “Sì. Li lavo”. Questo è Fellaini.

Desmond Digger

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