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Sao Paulo, dove i napoletani sono considerati eroi

Un napoletano mi viene subito incontro al nuovo terminal 3 dell’aeroporto internazionale di San Paolo. Il nome di Pietro Mastroberardino è il primo eco di casa che risuona qui, a novemila e 500 chilometri di distanza, dopo diciassette ore di volo, in euro fanno mille e 400. Stavolta il vino non c’entra, Mastroberardino è in Brasile come artista, all’interno di una mostra allestita da Sandra Regina Souza: nove suoi disegni celebrano l’atleta, il corpo e la bellezza. Nove disegni a penna, a matita o con il gesso sono esposti fino al 31 luglio nel luogo di iniziale accoglienza per noi che veniamo fin quaggiù a inseguire questa incomprensibile follia che si chiama Mondiale di calcio, un gigante che si sposta ogni quattro anni con le stesse promesse, le stesse minacce e gli stessi tormentoni. Oggi fanno paura le proteste dei “Contra Copa”, la marcia popolare di contrasto alla Fifa e ai suoi sprechi che si annuncia per le 10 di giovedì. Quattro anni fa in Sudafrica l’allarme riguardava la possibilità che Al Qaeda colpisse il grande circo del pallone. Mi dico che pure stavolta non accadrà nulla, forse per farmi coraggio. Dopo quella maledetta notte di Coppa Italia all’Olimpico di Roma, non sono qui per aprire altre ferite.Non vedo Màrcia che ormai sono otto anni. Ci abbracciamo urlando felici, nella sua stretta sento i giorni che abbiamo passato insieme e quelli che da allora ci siamo persi. Dice che sono dimagrito, che in questo mese ci penserà lei. Si è fatta un’ora e mezza di macchina da Campinas, anche se le avevo chiesto di non tenermi in pensiero, di restarsene a casa, avrei preso un taxi, ma che ho parlato a fare. Dice che quando si aspettano otto anni, anche un’ora e mezza risparmiata dà sollievo. C’è meno traffico di quanto temessi dentro questa città imbuto che porta il nome del mio stadio del cuore. Ripenso a una notizia letta poco prima di partire, uno di quei link che su Facebook ti mettono lo sgambetto: San Paolo sarebbe la città al mondo con più napoletani. Lo stabilirebbe uno studio di non ricordo chi, a proposito di non so che cosa. Màrcia scrolla le spalle, non mi pare che l’argomento la appassioni, mentre imbocchiamo la Rodovia Ayrton Senna risponde che può anche darsi, ma di cifre lei non ha mai sentito parlare. “E anche se fosse?”.Proprio così: e anche se fosse? Napoli è lontanissima vista da qui, lontanissime sono le chiacchiere su noi stessi di cui ci piace riempire le giornate. Che siano tanti i napoletani a San Paolo, questo è sicuro. Otto milioni di abitanti hanno origini italiane, almeno un quarto viene dalla mia terra. Quando i paulistanos parlano, molti sfoggiano una cadenza assai simile alla mia. “Te ne accorgerai”, mi dice Màrcia, “un giorno andiamo a Mooca”. Mooca, mi spiega, è il quartiere più italiano di tutti a San Paolo. Tantissimi oriundi, soprattutto napoletani: i nipoti di quelli che il secolo scorso si insediarono qui, hanno scelto di restare nelle case dei loro antenati. Mi ripete una storia a cui ogni tanto le piaceva accennare pure al telefono: sono stati i napoletani a impedire agli olandesi di prendersi il Brasile. Ottocento volontari che da Napoli si unirono alle truppe di Filippo IV di Spagna, siamo nel Seicento, ai tempi del vicereame, per sbarrare la strada agli olandesi sbarcati a Bahia. È questo il filo più robusto che unisce noi al Brasile, al di là del fatto che non c’è 19 settembre in cui alla Mooca non si celebri San Gennaro. “E il 15 giugno si festeggia San Vito, magari ci facciamo un salto proprio domenica”, mi propone Màrcia mentre imbocchiamo la Rodovia dos Bandeirantes verso Campinas, parlando di pallone. “Io domenica sono al Maracanà, gioca l’Argentina”. Se ne era dimenticata. Mi prende in giro, dice che penso sempre all’Argentina e che non le ho chiesto se ha comprato i biglietti per Brasile-Croazia. Li ha comprati. L’ultima volta che ci siamo visti, mi fa notare, nel Napoli giocava Pià. Ride e mi chiede che fine abbia fatto, a essere sincero non lo so, guardiamo su wikipedia, scopro che gioca ancora, a L’Aquila. Quando entriamo a Campinas, dopo esserci lasciati dietro Vinhedo e Valinhos, deviamo il tragitto per una strada che indica Mogi Mirim. “Ti porto a vedere una cosa”. Il nostro pellegrinaggio laico si ferma davanti alla scritta Careca Sport Center. Oltre il cancello ci sono campi di calcio, calcetto, tennis, palestre, piscine. Màrcia mi dice che Alini, la bimba di 3 anni che Antonio portò con sé a Napoli quando venne a vestire la maglia azzurra con lo scudetto e il numero 7, adesso è una nutrizionista molto apprezzata. Elen, la femminuccia che a Soccavo infilava le unghiette nella guancia di papà, fa la veterinaria. Thiago invece è maestro di tennis. “Nei prossimi giorni torniamo, magari Careca è a Campinas e ci scambi due parole”. Meglio di no. Mai voltarsi indietro, Màrcia, mai. Il Ciuccio

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