Ultras, o cani sciolti, che esercitano violenza fine a se stessa. Non parliamo di tafferugli con la polizia, di scontri con tifoserie avversarie, di tumulti di piazza o di sindrome del branco. Ma di gente, per lo più giovane, lucidamente determinata a fare del male. Di quelle applicazioni di ferocia che, passato lo spavento di chi ci si è trovato in mezzo, rimane una sola domanda: perché?
Domenica sera, dopo Napoli-Juventus, mezzanotte circa. Dopo una pizza ad Agnano accompagno a casa Marco, che abita a piazzale Tecchio. Fermi al semaforo di viale Kennedy, siamo affiancati da tre o quattro motorini con a bordo una decina scarsa di ragazzi. Notiamo che uno di questi ha in mano una pertica di legno lunga un metro. Ci incupiamo. Certo non pare un carpentiere. Il primo pensiero è che vogliano accrastarci. Ma poi la flottiglia di motorini buca il rosso ed esce dal nostro spettro visivo.
Scatta il verde e riprendiamo la marcia anche noi. Seguiamo la strada in direzione via Giulio Cesare. Svoltiamo l’angolo davanti alla stazione della metropolitana Campi Flegrei, e ritroviamo la flottiglia. In due hanno bloccato il passo a un furgoncino, di quelli da nove posti. Il ragazzo con la pertica, a occhio sulla ventina, è sceso dalla sella. Si è tirato il collo alto della maglia, o forse una sciarpa, sul volto. Assesta quattro o cinque colpi contro i finestrini del van, che vanno in frantumi e si accartocciano. Poi il ragazzo corre di nuovo sul motorino, e vola via col resto della ciurma.
Dura tutto molto poco. È una di quelle sequenze che, se un domani salterà fuori dalle immagini di un circuito di sicurezza, sarà riproposta dai tg con un titolo del tipo: “Napoli, aggressione in pieno centro, nessuno interviene”. Ma il darwinismo vuole che nel nostro dna ci sia conficcato l’istinto di sopravvivenza, e non quello delle crocerossine. Quindi noi, come le altre auto in transito, sbandiamo (nel senso letterale del termine) di fronte alla scena, stiamo attenti a non collidere con le sbandate degli altri, e portiamo a casa la pellaccia chiedendoci come possa degenerare ancora (a nostro discapito) la situazione.
Ora. Siamo d’accordo che si tratti di un fatto minore sotto tutti i punti di vista, sia giornalistico che penale. Nulla a che vedere con il dramma svedese della stessa domenica, per esempio, quando un tifoso del Djurgarden ha perso la vita negli scontri precedenti il match contro l’Helsinborg. Ma siamo sicuri che chi era a bordo di quel van non dimenticherà facilmente la serata.
Il punto è un altro. Siamo abituati a mettere sotto l’etichetta “ultras” cose molto diverse tra di loro. Chi in curva gravita intorno ai gruppi, chi partecipa più da vicino alle loro attività fino a chi fa militanza. Chi nei momenti caldi rimane nel fuggi fuggi e chi non si tira indietro dal menare le mani. Fenomeni e livelli di intensità molto diversi, insomma.
Ma qui siamo su un altro piano. Estetica della violenza, verrebbe da dire. La ricostruzione più facile dell’accaduto: i ragazzi in motorino, quando la partita è finita da un paio d’ore, continuano a battere Fuorigrotta alla ricerca di juventini che defluiscono dalla zona stadio. Individuano una comitiva bianconera che, presumibilmente, si è fermata a mangiare in un ristorante del quartiere prima di tornare a casa. Aspettano che i supporter della Vecchia Signora paghino il conto, che si rimettano in auto, che si incolonnino in direzione tangenziale, per poi far scattare il raid. Senza provocazioni, senza trasporto, senza agonismo: puro efficientismo marziale. Ognuno ha un ruolo, dalla civetta, a chi sbarra il passo, a chi esercita la violenza.
Si possono definire ultras, o in altro modo? Forse non è importante. E non mi perdo in paternalismi del genere: “Ragazzi, ma non ci pensate che rischiate di fare del male a chi, tutto sommato, non ha fatto nulla di tanto grave per meritarsi un agguato?”.
Ma quello che mi chiedo, e sarebbe bello se dai meandri del web saltasse fuori uno che appartiene a quei giri per spiegarmelo per bene: chi ve lo fa fare? Sul serio: cosa spinge persone in età matura a rischiare condanne penali per giocare alla guerra? Probabilmente qualche sociologo o psicologo delle masse ha spiegato perché si senta il bisogno di partecipare a scontri di piazza, politici, sindacali, sportivi o di prossimità che siano. Ma le ragioni di un tale, individuale, gratuito e razionale esercizio di ferocia rimangono per me inspiegabili.
Roberto Procaccini