Io anti-juventino come alla fine Troisi si disse emigrante

Emigrante? Alla fine, rassegnato, di fronte al dito del medico dall’inflessione tedesca, Massimo Troisi dice sì. Emigrante. La via più breve. Perché non c’è aspetto più grottesco della nostra esistenza di quando proviamo a esporre un concetto sapendo che l’interlocutore non ci crederà mai, che le nostre saranno parole al vento. Arriva un momento in […]

Emigrante? Alla fine, rassegnato, di fronte al dito del medico dall’inflessione tedesca, Massimo Troisi dice sì. Emigrante. La via più breve. Perché non c’è aspetto più grottesco della nostra esistenza di quando proviamo a esporre un concetto sapendo che l’interlocutore non ci crederà mai, che le nostre saranno parole al vento. Arriva un momento in cui bisogna pacificarsi. Prendere atto del contesto e magari sorriderne.

Ecco, quindi stavolta il solito pistolotto sulla partita come le altre non ve lo propinerò. Mi sono arreso. Mi arrendo. Certo, non capirò mai cosa possa spingere uno stadio intero a gridare “chi non salta juventino è” al gol di Pandev contro il Porto. Ma ne sorrido. È una consuetudine. Un rito. La nostra pietra contro le finestre di Mezzacapa. Non me ne vorranno i credenti, il sangue di San Gennaro che si scioglie due volte l’anno. Noi siamo prima di tutto anti-juventini. Lo studio dei comportamenti del tifoso del Napoli dice questo.

Non condivido. O meglio, non condivido in toto. Per quelli della mia generazione, i fortunati, quelli della generazione Maradona, la Juventus è stato un punching-ball: l’abbiamo battuta praticamente sempre. In tutte le salse. Evidentemente non è bastato. Siamo tornati nella nostra situazione preferita, con quella inclinazione all’autoghettizzazione: la stagione salvata da una vittoria sulla Juventus. Come se fossimo ai tempi di Dirceu e del povero De Rosa (quel pareggio fu come una vittoria per noi).

Ma è anche il bello di un popolo. La tradizione. Gli usi e i costumi. E noi siamo anti-juventini. Che poi, in realtà, dovremmo sorridere dei nostri fratelli bianconeri, fratelli – per dirla alla Zambardino – in quanto meridionali. Perché a far sorridere sono loro che, almeno quando si parla di pallone, cambiano inflessione e si vestono di torinesità e ci impartiscono lezioni sull’essere vincenti. È una metamorfosi interessante, va riconosciuto. Sono più problematici di noi. Sono meridionali che non ce la fanno. Che almeno in un ambito vogliono vincere. In qualsiasi modo. Non importa.

Dovremmo sorridere di questo, così come avremmo dovuto inorgoglirci per quell’Oj vita mia cantato a mo’ di scherno alla Juventus Stadium, o per le parole di Marchisio che parlò di antipatia sportiva. E invece non ce la facciamo. Schiumiamo rabbia. Li dobbiamo scamazzare. All’inizio chiediamo solo una vittoria, piccolina, indimenticabile, magari con una punizione a due in area. Poi, però, ci ingolosiamo. Gliene vogliamo dare tre a Torino, e poi cinque. E poi li vogliamo sbattere fuori dalla Coppa Uefa all’ultimissimo minuto nella partita in cui segnano persino un gol regolare che viene loro annullato. E ancora. Ancora. Cinque in SuperCoppa, persino due da Silenzi. Ecco, non abbiamo classe. Non ci fermiamo mai. Non desideriamo la rivincita. Non vogliamo invertire le posizioni. Non vogliamo smettere di essere subalterni. Finirebbe il gioco. Ci troveremmo a disagio. E infatti noi siamo a disagio quando vinciamo. Siamo a disagio quando dovremmo lottare per vincere. E quindi rischiamo di perdere.

Ecco, lo sapevo, ci sono ricascato. Prometto, non lo faccio più. Sono pronto. Prendiamo le pietre e andiamo fuori casa di Mezzacapa. Una la voglio lanciare anch’io. Juve merda, e così sia.
Massimiliano Gallo

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