Razzismo negli stadi, il modello inglese che piace a Benitez

“Non possiamo far pagare a 60mila persone quello che combinano solo 200 tifosi. Negli stadi ci sono le tv a circuito chiuso per osservare i tifosi e individuare i rensposanbili, in Inghilterra lo si fa da tempo e la polizia li espelle dal campo”. Così Rafa Benitez al quotidiano Il Mattino a proposito delle polemiche […]

“Non possiamo far pagare a 60mila persone quello che combinano solo 200 tifosi. Negli stadi ci sono le tv a circuito chiuso per osservare i tifosi e individuare i rensposanbili, in Inghilterra lo si fa da tempo e la polizia li espelle dal campo”. Così Rafa Benitez al quotidiano Il Mattino a proposito delle polemiche sulla discriminazione territoriale. Rafa, quindi, è per il modello inglese che qui viene ricordato da Roberto Procaccini.

Ok, Milan-Udinese si giocherà davanti al pubblico del Meazza. E della sospensione della squalifica dello stadio milanese già ne parliamo nei termini di resa, impunità, sconfitta (nostra) e vittoria (loro). Invece dovremmo discuterne in altro modo: dovremmo vederci un’opportunità. Perché se il razzismo è orribile, i provvedimenti sanzionatori fin qui messi a punto dalla Lega non sono meglio.
Partiamo da un presupposto: quello che le autorità civili e del calcio possono fare ai margini di una partita di pallone è punire chi assume comportamenti devianti, non rieducarlo. Quello si fa prima e dopo con altri strumenti, ma allo stadio si sanzionano le responsabilità, che per definizione, specie se penali, sono personali. Che lezione pensate avrebbe imparato il tifoso milanista medio dalla chiusura del Meazza? Sarebbe diventato un cittadino più rispettoso o un tifoso più responsabile perché un centinaio (da referto) di rossoneri in trasferta aveva intonato cori anti-napoletani? No, si sarebbe sentito solo danneggiato da un provvedimento draconiano. Così come noi napoletani nell’autunno del 2007, quando per un solo cretino che colpì il guardalinee con un vasetto di yogurt durante un match casalingo col Livorno, fummo costretti a guardare la partita col Genoa alla tv.
Ecco, ma torniamo ai cori razzisti e discriminatori. Il punto fondamentale è che la responsabilità davanti alla legge è personale, non collettiva. E’ una questione di diritto. La riduzione della sanzione massima per cori razzisti alla chiusura del singolo settore (come proposto in Lega) non risolve il problema. In scala minore, si applica la stessa ingiustizia. Le autorità del civili e del calcio, se volessero fare sul serio, dovrebbero processare e poi punire i singoli, ultras o non, che cantano cori disdicevoli. Non sparare nel mucchio, punirne 100 per educarne – forse – 1 (questo lo faceva un altro che le cronache di questi giorni ci riportano all’attenzione: Erich Priebke).
“E come si fa? Impossibile! Benaltrista!”. Immagino il tenore delle obiezioni. La risposta è la solita: prendiamo esempio dall’estero, come abbiamo fatto per Daspo, flagranza differita e direttissimo speciale. Quando si parla della repressione del tifo violento, il primo esempio che affiora sulla bocca di tutti è il modello inglese. Ed è un esempio valido, perché il fenomeno hooligan nei 70 – 80 ha assunto proporzioni che fanno sembrare bagattelle di bambini i problemi di cui qui si discute. Non solo tafferugli e tragedie isolate, ma vere e proprie stragi (1985: 56 morti per un incendio allo stadio di Bradford; ancora 1985: 39 morti all’Heysel; 1989: 95 morti all’Hillsborough Stadium di Sheffield). Nel calderone di tensioni sociali e di subcultura della violenza sul quale le autorità inglese hanno normato a più riprese dalla metà degli anni 80 fino al Football (Disorder) Act del 2000 c’è anche il razzismo. L’usanza del lancio di banane e dei buuu ai giocatori di colore forse è stato inventata dai sudditi delle regina Elisabetta.
Ecco, sapete cosa prevede una legge del 1999 per chi canta cori razzisti (o si rende più banalmente protagonista di “violenze verbali”)? Arresto e processo per direttissima. Si badi bene: non chiusura del settore, ma procedimento penale individuale. Si punisce (se risulta colpevole in un processo, e non per lettura di un referto) la persona, non la tifoseria.
Non è un’alchimia irripetibile: è determinazione. Anziché il nicodemismo all’italiana del vorrei, ma non posso – cento ne dico, una ne faccio, gli inglesi si sono dati uno scopo e l’hanno perseguito. A tenere l’ordine pubblico fuori dagli stadi ci sono i bobbies. Dentro gli stadi gli steward (udite udite: le leggi italiane e inglesi pongono lo stesso rapporto minimo di una giacchetta gialla per 250 spettatori; i mezzi in campo sono gli stessi). Dappertutto telecamere. E così chi infrange la legge, il più delle volte viene beccato.
Non è stato facile neanche per gli inglesi. Ci sono state grosse discussioni, le cui tracce sono reperibili online, sui temi delle limitazioni delle libertà individuali, dello stato di polizia, dell’eccessiva estensione del procedimento penale. E tenete conto che i paesi anglosassoni, quelli del civil law, hanno una certa riluttanza culturale anche solo a immaginare reati di tipo associativo. Quindi non ne hanno neanche per reprimere il tifo violento, caso nel quale un bel reato associativo cascherebbero a fagiolo. Ma sono riusciti lo stesso a rendere gli stadi quei posti pacati e civili che tanto gli invidiamo.
(Che poi c’è da dire che il modello inglese non è necessariamente il massimo. Quando andai all’Anfield Road nel 2010 e mi vidi con tanti tutori dell’ordine intorno, più che protetto mi sentivo braccato. E poi è una limitazione per tutti, non solo per i violenti e i razzisti. A me cantare a squarciagola, bere il caffè Borghetti – perché il modello inglese vieta l’alcool allo stadio, stare in piedi e nel caso saltellare, non dispiace affatto).
Se non bastasse, facendo un volo pindarico sugli altri campionati occidentali (Spagna, Francia e Germania) si scopre che la chiusura di settori o di stadi è un provvedimento straordinario e certamente non contemplato per il razzismo. Anzi, leggendo la stampa inglese si apprende che ora sono loro (abituati a fronteggiare il problema in altro modo) preoccupati che l’esempio italiano, attraverso l’Uefa, venga imposto all’estero.
Insomma, tornando al Napoli e ai problemi di questi giorni. E’ giusto pretendere che le autorità facciano la loro parte contro i cori razzisti, che la cultura della discriminazione del napoletano non trovi spazio, riconoscimento e giustificazione in nessuna sede. Ma aspettarsi che le cose migliorino chiudendo gli stadi è sbagliato. A Lega Calcio e ministero dell’Interno dobbiamo chiedere un’altra cosa: tirate fuori il coraggio, quello vero, e prendeteli uno per uno.
Roberto Procaccini

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