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L’ultima puntata di Lady Edy, la fine del feuilleton

E poi successe tutto in fretta. Tanto in fretta che il conte Aurelio faceva una grandissima fatica a ricostruire l’ordine delle cose e degli ultimi giorni. Gli pareva distante soltanto un sospiro la sua ultima proposta di matrimonio a Lady Edy, e lei lì, tremante, un filo di rossore sulle gote, la testa bassa, la voce pure, a dire “No, non posso, devo crescere”.
Non ricordava neppure come fu che all’improvviso si ritrovò sulla porta di casa quel medico condotto francese, monsieur Leò, con la folle proposta e la cieca determinazione a portarsi via la ragazza. Ai patti stabiliti, i 63 scudi previsti. Il conte Aurelio rimbalzava fra due stati d’animo, la gioia nascosta che provava nel tenere fra le mani il malloppo e il rimpianto per doverla vedere partire. Come ogni volta. Come sempre partivano tutti quelli che erano stati per un poco accanto a lui. Perché fanno così, perché se ne vanno, si domandava il conte Aurelio con gli scudi fra le mani, il prezzo del suo dolore.

Si lisciò la barba mentre questo e altro gli passava per la testa, nel giorno del matrimonio di Lady Edy. Di Leò si diceva che fosse un libertino, un abile seduttore, si mormorava che prima di Edy avesse fatto cadere in tentazione Ezequita, sua cugina. Non importa, pensava Edy nel rimirarsi allo specchio, in piedi, fiera e meravigliosa nel suo giorno dei giorni. Il calesse di monsieur Leò la attendeva fuori il castello per condurla all’altare, c’era solo da percorrere quelle scale per dire definitivamente addio al conte Aurelio e a tutta la sua contrada. Tre lunghe rampe di scale che Edy voleva scendere a testa alta dopo tutti i servigi resi, dopo le gioie che aveva saputo regalare al popolo. Lo meritava. Ne aveva diritto. Voleva andarsene così, accompagnata da uno struscio d’amore. E’ l’ultimo passo, quello che conta. L’addio è il momento magico di un amore, non si dimentica, un addio non si rovina con una faccia storta, con un rancore, con un dispetto. L’addio è melodramma puro, si vive con un sorriso fradicio di lacrime. E allora che sia così.

Edy fece entrare nella sua stanza tutti i bambini e le bambine della contrada. “Aiutatemi a vestirmi”. Le misero addosso un abito bianco, il più bello che si fosse mai visto al castello. Le legarono i riccioli neri sulla testa, un tupé, l’acconciatura che le piaceva tenere in casa quando non la guardava nessuno, e che invece stavolta voleva esibire al mondo. Le intrecciarono una coroncina di fiori bianchi tra i boccoli scuri, una bambina le disse che era bella, che così bella non l’aveva vista mai. Ti sbagli, rispose lei, sono stata bellissima ogni giorno che ho passato qui da voi, qui con voi, e questo non lo dovrete dimenticare, mai dovrete dimenticarlo, anche se adesso non ce la fate a sorridermi, lo so che non ce la fate. Calò il velo davanti al viso, non voleva farsi vedere, chissà forse piangeva, o forse era solo per la vergogna. Infilò le scarpe, fece un sospiro profondo e disse: “Sono pronta”. Le dita ben curate, laccate di smalto bianco, si allungarono sulla maniglia dorata della stanza che aveva vissuto negli ultimi mesi come una prigione. Aprì la porta e sentì che la mano di un bambino si accostò alla sua. Lei gliela prese e si voltò a guardarlo, il bambino piangeva di un pianto sordo, senza singhiozzi, sorrise un attimo soltanto quando vide scoperti i suoi occhi gonfi. Lei gli strinse la mano ancora più forte, come quando ci si aggrappa alla vita prima dell’ultimo istante, e stettero così ancora un altro po’, per un tempo che nessuno seppe mai più ricordare, prima di dirsi addio per sempre.
Il Ciuccio
(3. – fine)

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