Ventinove o trentuno. Un attimo dopo lo scudetto di ieri pomeriggio, il nuovo cuore della vicenda è diventato questo. Il numero. Il numero della gloria juventina. La sua lunghezza. Discussioni, sfottò, insulti, hashtag. La solita Italia divisa quando c’è la Juventus di mezzo, che per sua necessità identitaria spacca e ha bisogno di un nemico. Quando tutto ciò sia cominciato, si sa. Negli anni ’30. Fu allora che la Juve, vincendo 5 scudetti di fila, diventò la fidanzata d’Italia. Alle ragioni e ai motivi Gianni Brera dedicò un paio di pagine del suo saggio Storia critica del calcio italiano (1975, prima edizione Bompiani), datato in certi passaggi, incredibilmente attuale in altri. Le sue pagine sono qui sotto:
Il calcio stava togliendo al ciclismo la qualifica di sport nazionale. La Juventus applicava un modulo di marca sudamericana senza i preziosismi un po’ fatui di quella scuola e, per giunta, con la costante praticità dei padani, non precisamente aliena dalle rudezze virili. I terreni di gioco erano ancora pessimi e grandi eleganze non se ne potevano fare. Alla Juventus bastava un minimo d’impegno per imporsi alle avversarie più quotate e diventare, come divenne, la fidanzata d’Italia.
Sulle direzioni del favore popolare – il tifo! – varrebbe la pena di indagare con riferimenti socioculturali e persino etnici. Il primo responso, ad ogni modo, è questo: che agli italiani piace parteggiare per chi vince. La Juventus gioca bene, vince sempre e non è né lombarda né emiliana né veneta né toscana: appartiene a una regione che ha innervato l’esercito e la burocrazia nazionali: di quella regione, il capoluogo è stato anche capitale d’Italia. Nel Medio Evo non esisteva se non come povero villaggio. Nessuna città periferica aveva contratto odii nei suoi confronti, all’epoca dei Comuni. Essa batteva ormai le decadenti squadre del Quadrilatero e offriva agli altri italiani la soddisfazione di umiliare le città che nel Medio Evo avevano spadroneggiato: i romagnoli andavano in visibilio quando Bologna veniva mortificata dalla Juventus, così i lombardi di parte ghibellina come pavesi e comaschi quando le milanesi venivano battute in breccia, e ancora i lombardi che avevano squadre proprie, come bergamaschi, bresciani e cremonesi, e le vedevano puntualmente vendicate dalla Juventus.
Vi è poi da dire che prendere parte consentiva di tener vive le discussioni spicciole al caffè o all’osteria: che se tutti tifavano per Milano, Bologna o Firenze, come trovare antagonisti degni quando a vincere era la diva elegante degli Agnelli?
Vi si metteva naturalmente anche la stampa, e ho già detto che i colleghi torinesi erano molto bravi, non solo, ma si ricordavano sempre di essere piemontesi, mentre nei centri con giornali importanti come Milano veniva snobbato lo sport o quasi del tutto ignorato il campanile. La Juventus picchiava con rude cipiglio; non era – ah no! – scarpona: se Monti rompeva di proposito la gamba a Schiavio, si trattava di un grave ma deplorevole incidente. Se invece un avversario si consentiva qualche licenza con il pavido Orsi, era la fine del mondo: il vero calcio veniva frainteso e tradito, la pura classe ignorata o conculcata, i meriti azzurri, i motivi patriottici tenuti grossolanamente in non cale ecc. ecc.
I bardi della Juventus erano Carlin sul Guerin Sportivo, Casalbore sulla Gazzetta del Popolo e Berra sulla Stampa. Milan e Inter non avevano paladini fra i migliori giornalisti e altre grandi squadre non avevano giornali che uscissero dalla cerchia regionale. Lo stesso Littoriale, trasferito da Bologna a Roma, infiammava tifosi che erano di almeno di trent’anni in ritardo rispetto ai padani: di ostilità tra settentrionali e meridionali non si poteva parlare: era tassativamente proibito: ed in effetti sarebbe stato di cattivo gusto prolungare fino a quel punto l’ombra del campanile.
Gianni Brera
dal blog Il Puliciclone