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Lasciamoci, Pocho, anche solo nel ricordo

Ma allora, Pocho, cosa ti piaceva di Napoli?
Forse ti piaceva poter alzare il telefono alle dieci di sera della domenica, dire sono Lavezzi e trovare sempre, sempre e comunque, un tavolo in qualunque ristorante della città. Lo racconti oggi a Sportweek, il magazine della Gazzetta dello Sport che ti è venuto a trovare a casa per la seconda volta in un anno, la prima a Napoli, ora a Parigi, dedicandoti la copertina: mai successo per nessun altro calciatore al mondo. Hai un manager in gamba, Pocho, ci sa fare. “Qui se la sala è piena ti dicono è piena. Anche se ti chiami Lavezzi”.

Tutto qui? E’ questa la differenza tra Parigi e Napoli? “Per un calciatore la vita a Napoli è stancante, ma alla fine ci si abitua”. Ci si abitua. L’abitudine. Ti sbagli, Pocho. A Napoli non ci si abitua mai, non ci siamo abituati a Napoli neppure noi che ci viviamo, neppure noi che ce ne siamo andati e la guardiamo morire da lontano. Ti chiedono se un giorno ci ritornerai. E mi fai rabbia, Pocho, quando rispondi “non lo so. A trovare gli amici, sicuro”.

Lo so, lo so che tanti sospireranno, e basta, ancora con Lavezzi. Ma non è di Lavezzi che si parla. Qui si parla di Napoli e dei suoi abitanti più in vista, i più ricchi, i più celebri. Si parla di quello che questa città ti regala e di quello che ti toglie. Della capacità di saperlo, di capirlo, di accettarlo.

Ora racconti che a Parigi passeggi, che “a Napoli non ci ero abituato, qui posso godermi la città”. Lo dici e non comprendi che è tutto coerente con il fatto che “nessuno mai mi darà quello che mi ha dato il Napoli. I tifosi del Napoli, soprattutto”.

Parli di Napoli come se di Napoli uno come te possa accettare soltanto di esserne re, e non un ospite, non un passante, non un banalissimo condomino. Lo sai come dicevano, Pocho, le nostre nonne? Non puoi allattare e tenere le zizze belle. Mi fai rabbia perché alla fine mi stai dicendo che è colpa nostra, che è colpa mia, perché il bello di Parigi è “essere trattato come una persona normale, mi aiuta a tenere i piedi per terra”.

Mi fa rabbia quando dici che in Italia torneresti sì, ma per giocare in una delle due squadre di Milano. Ho capito bene? Milano? Chiedilo a Diego cosa significa per un napoletano sentirselo dire. Più il Milan che l’Inter, aggiungi. Perché ha più fascino. Per via delle sue vittorie. Ma il fascino, Pocho, non sta nelle vittorie. Dovresti averlo capito proprio trattenendoti un poco in mezzo a noi. C’è più fascino nello sconfittismo del Torino, nelle budella della Fiorentina, nelle brume del Genoa che nei trionfi del Milan.

Mi fai rabbia perché butti là una cosina tra le righe, e invece vorremmo capirla meglio. Parli dei compagni che ti sono venuti a trovare: De Sanctis, Cannavaro. Quelli che ti telefonano. “Sento Hamsik, Inler, i sudamericani…”.

Domanda: e Cavani? Tu rispondi: “Con lui non parlo da tempo”. Da tempo. Chissà da quanto. Chissà cosa succede tra Cavani e gli altri. Ma mi fai rabbia soprattutto perché alla fine sei esattamente come noi, perché dici che “Napoli è bellissima e non viene apprezzata come merita”, chissà se però gliel’hai mai detto a Yanina; perché in quattro pagine pronunci più volte Napoli che qualunque altra parola, perché non riesci mai, mai, mai, a dire che lì stai meglio, dici “è diverso”, riesci a dire solo “è diverso”, esattamente come noi che da un secolo cantiamo la “smania ‘e turnà a Napule, ma c’aggia fà, me fa paura ‘e ce turnà”.

Lasciamoci allora, Pocho. “Non è facile dimenticare una città dove sei stato 5 anni, né voglio farlo”. Lasciamoci per sempre. Per favore. “L’affetto e le attenzioni che ho ricevuto là non le troverò da nessun’altra parte”. Dici che non siamo come innamorati traditi, “io non ho mai detto che sarei rimasto a Napoli a vita”. Mi fai rabbia un’ultima volta perché anche tu, persino uno trattato come un re, arriva al punto che a Napoli non si può restare a vita. E maledetto tu sia, Pocho Lavezzi, il più napoletano di chi non lo è stato mai.
Il Ciuccio

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