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La stanchezza di Napoli e una città in marcia verso il basso

Il Napoli per me è un sogno civile. Il desiderio-fantasia che la squadra diventi non solo vincente, più o meno vincente (non vinci mai, per fortuna, per dieci anni di seguito). Che il pallone diventi uno dei gesti fisiologici di una città che rinasce. Non una città che in un botto solo diventi San Francisco. Ma che inverta il senso di marcia che tutti ci sentiamo addosso: verso il basso (il mio amico chef internazionale Antonio Tubelli, nell’offrirmi la sua pastiera degli dèi sabato scorso ha sostenuto una tesi alternativa: che la città si sia sempre mossa orizzontalmente nella negatività, come una medusa nel mare. E la differenza è che adesso nessuno pensa più nemmeno che sia possibile riemergere per una breve illusione). Ma torniamo al sogno e al fatto che il Napoli, per me, non può essere solo “riscatto” di quel poco di “Napolidecente” che c’è.

Una città dove ammalarsi non significhi entrare nel tunnel ospedialiero (“been there, done that”) degli esami prenotati a 11 mesi e alternativamente l’occasione per spendere un po’ delle proprie “relazioni” per aver ciò che sarebbe normale ovunque nel mondo civile. Una città “ovvia”: con i trasporti, la pulizia e dove i bambini giochino al parco e non vadano nelle manifestazioni politiche in stile Germania est, a far da comparse nelle cose degli adulti.

Ma soprattutto una città che non sia un luogo dal quale fuggire, da portare nel cuore quasi di nascosto, da piangere come un affetto perduto (perché puoi tornarci quante volte vuoi, ma se te ne sei andato l’hai perduta). Una città di cui, a via Toledo o su Marte, non doversi mai vergognare come capita così spesso. In questa città non ci sarebbero “eroi” che restano e “vigliacchi” che vanno via, e nemmeno teste nelle quali possa affiorare alle labbra una dicotomia così bislacca.

In questa città la squadra sarebbe un lusso del cuore. Una questione di sport. Una delle tante aziende che funzionano. Più o meno, a seconda dei periodi. Smetterebbe di essere un amore troppo passionale, una bandiera a volte mal sventolata da teppisti e sarebbe un pezzo della buona immagine della città. L’ameremmo senza quel senso di tragedia imminente, di declino inevitabile che ci assedia ad ogni sconfitta.

Ora voi pensate che queste cose sono già state dette. Certamente, tutto ciò che facciamo a Napoli appartiene alla coazione a ripetere di chi non trova la strada. Ma io non vi parlo di uno “stato” felice e stabile per sempre. Penso a un processo. Il processo, non penale, cioè un andare avanti delle cose, che ci darebbe il senso della risalita, anche se la risalita fosse solo parzialissima. Più o meno la sensazione che accompagnò gli anni ’60 di questo paese. Vedo i sorrisi di compassione e in qualcuno di disgusto per questo mio discorso. Lo so perché nei miei giri napoletani (rendendo grazie all’alta velocità) questo ritrovo: la sensazione di Tubelli che qualcuno abbia gettato via la chiave. E figuratevi se non sono d’accordo con voi.

La stanchezza di Napoli è entrata anche al Napolista – e non c’entrano niente i commenti. Insulti e sarcasmo non possono nascondere una difficoltà di pensiero e puoi anche rimetterli, i commenti, ma segnalo che il tema del “flaming” dei commentatori di un blog è irrisolto in tutto il mondo, tanto è vero che il termine “troll” è preesistente ed entra nell’attualità politica attraverso la porta del blog più numeroso di questo paese in quanto a lettori e commentatori (piaccia o no, e a me non piace, ma è così).

Resta aperto il tema del ruolo di questo blog. Che, vi assicuro, è letto da gente insospettabile anche fuori Napoli, soprattutto quando sa lanciare idee che non sono nell’orizzonte del giornalismo tifoso e dei titoli “la Merkel va a trovare il cameriere licenziato” (rumore di lingue che leccano piedi, fortissimo, giornalismo di paese). E’ un blog che irrita redazioni e capi di redazioni, tanto è vero che si leggono interviste e paginate fatte per rispondere a noi, senza avere il buon gusto di citarci. Questo è il ruolo: lanciare discussioni, temi, pensieri, anche uscendo dal semplice schema del tifo sportivo e diventando un pezzo della cultura di questa città. Così facendo si crea una sorta di sacco amniotico di informazione, che permette la maturazione di buoni pensieri, di buone pratiche. Anche sportive. Anche politiche. E per farlo, non si può perdere tempo con i fessi pronti a dare dello juventino a chi discute l’allenatore o a qualche misogino attardato.

Io sogno questo Napolista per questa Napoli. Con questa capacità di creare liquido amniotico, placenta culturale. Altrimenti poi ci tocca sentire Claudio Velardi che tifa per la Roma, “perché la Roma è l’Italia”. Signori Napolisti, signori fondatori, amici “opinion maker”, non avete niente da dire?
Vittorio Zambardino

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