Napoli-Juventus e una compagna fedele: l’ansia

Ho una data per il mio primo Napoli-Juventus. Il 6 febbraio 1966: al 24’ gol di Altafini su appoggio di Sivori. Portiere Anzolin battuto. Risultato finale: 1-0 per il Napoli. Me la ricordo perché fu quel giorno che capii che soffrivo di ansia – una consapevolezza importante per chi soffre di una malattia inguaribile e […]

Ho una data per il mio primo Napoli-Juventus. Il 6 febbraio 1966: al 24’ gol di Altafini su appoggio di Sivori. Portiere Anzolin battuto. Risultato finale: 1-0 per il Napoli. Me la ricordo perché fu quel giorno che capii che soffrivo di ansia – una consapevolezza importante per chi soffre di una malattia inguaribile e di origine certamente extrasportiva.
Mi ero alzato alle 5, gli ansiosi dormono poco. Arrivai al San Paolo alle 10, gli ansiosi sono sempre in ridicolo anticipo – all’aeroporto di Tel Aviv, anni fa, mi hanno quasi arrestato visto che mancavano sei ore al mio volo e io già vagavo per le sale. Alle 10 ovviamente lo stadio era chiuso, fui preso per il culo da un custode, ma quasi con gentilezza, come solo i napoletani sanno fare. Il resto lo abbiamo detto. Non lo dico per celebrare un ricordo. Lo dico per denunciare un errore. Faccio autocritica.
Non si dovrebbe fare. Perché è su questo sentimento che si fonda la cultura della subalternità, quella che ci fa vivere come straordinario uno scontro che vale in classifica come tutte le altre partite. E trasforma ogni Napoli-Juventus in una rivincita della spedizione dei Mille.
Non si dovrebbe fare perché è tossico: ti rende dipendente dalle parole di tutti i giornalisti-tifosi che vivono di questo, della tua voglia di sapere anche come sta il pelo numero 756 della gamba destra di Cavani e che ti somministrano i titoli di Tuttosport come se fossero il vangelo. Perciò ti rende manipolabile da parte di tutti i gatti e di tutte le volpi che popolano il mondo del pallone. E questo l’ansia lo fa sempre, mica solo nel calcio.
Non si dovrebbe fare, ma si fa e in questo mi riconosco napoletano. E’ da lunedì che tento di parlare al telefono con gli amici di questa partita. Neanche una parola, come se non esistesse campionato. Quando sentiamo arrivare questi momenti della vita dove ci si gioca tutto, noi fermiamo il cuore, sperando che basti a scansarci dal male. Forse lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia ragione come noi.
Non si dovrebbe fare, ma per me è troppo tardi: non lo facciano i giovani, io continuo con la “coazione a ripetere” del dottor Freud. Non vado al San Paolo perché la tensione mi spezza, non perché fra me e lo stadio ci sono i 200 chilometri da Roma a Piazzale Tecchio. Anche domani mi chiuderò in casa da solo. E chiuderò gli occhi ad ogni punizione o angolo di “quelli là”. Anche domani, se ci sarà un rigore per noi, non guarderò. Anche domani mi chiederò perché non vado di più al cinema. Anche domani il mio figlio medico si preoccuperà, e mi dirà “Papà, però cerca di stare calmo” (è romanista, la merdaccia).
E soprattutto anche domani vorrei – VORREI, sia chiaro eh, VORREI SOLO – invidiare voi che POTRESTE cantare O’ Surdato Nnammurato alla fine. Perché lo cantate vero? O no? Da un po’ l’audio del televisore mi funziona male.
Vittorio Zambardino

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