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Se ti fai chiamare monnezza, “sei” monnezza. E, se permettete, monnezza un cazzo

Questo dibattito sulle nostre reazioni agli insulti negli stadi ha bisogno di uscire da una autoreferenzialità napoletana, che è un po’ segnata da un senso di colpa ingiustificato cui si reagisce con sorrisini insulsi. E ci teniamo così tanto a dire che non fa niente, che l’antipatia è giustificata (antipatia? è di odio che si parla), che se ci insultano ci temono ecc ecc… Scusate, eh, ma sono palle provinciali e senza costrutto.

Dichiaro qui il mio pieno consenso con quanto diceva Claudio Botti a proposito dello stadio della Juventus da squalificare per quegli insulti. Ma mentre lui la prende dal lato della giurisprudenza, io vorrei prenderla dal lato antropologico e politico.

Qui la questione è tenersi in equilibrio tra due principi giuridici e filosofici. Il primo è lo stato di diritto e la libertà di espressione. Il secondo è la necessità politica, urgentemente politica, di mettere fino a un certo atteggiamento verso la nostra città. Prometto brevità, ma seguitemi.

Su libertà di espressione non si discute: anzi, bisogna andare oltre l’idea che solo ciò che è sobrio e moderato sia liberamente dicibile. I principi di libertà regolano sempre le condotte che stanno al limite. Sotto questo aspetto “Vesuvio, lavali col fuoco” è non solo affermazione dicibile, ma perfino legittima.

Perfetto. Veniamo al punto antropologico e politico. Una domanda a voi cari sorridenti: “Scusate, ma voi dove campate?” Io fuori di Napoli e non solo a Roma. E in questo paese da quasi trent’anni ci sono forze politiche che propongono il razzismo verso i negri e la “discriminazione territoriale” verso di noi. Il clima per noi è irrespirabile, la ferita morale un accadimento quotidiano.

Si può dire che non se ne può più? Si può dire che questo limita la possibilità di guardare il calcio allo stadio perché è doloroso sentirsi dire certe cose, vedersi mostrare sacchetti a perdere, essere invitati alla carbonizzazione? Avete mai pensato che voi napoletani residenti siete mitridatizzati ad ogni empietà, mentre noi che viviamo fuori da decenni abbiamo un’aspirazione di dignità e pari dignità per il nostro essere napoletani nel mondo?

E allora il punto è che c’è una battaglia “locale”, di “ambiente”, di “codice linguistico locale”. E’ come il dress code di certe feste, dove non entri senza giacca. E’ come l’abitudine per cui non si parla a teatro e non si rutta a tavola. “Vesuvio lavali col fuoco” è offensivo in questo contesto umano e sociale. Non è reato, ma rompe un codice. Quindi si squalifica il teatro. Ci sono le regole che sanzionano questa cosa? Voglio vederle applicate. Ma direte dov’è la politica?

La politica è che Napoli deve rimontare la corrente della dignità nazionale e internazionale. Deve recuperarla nei cuori e nelle menti dei nostri connazionali. Sotto questo aspetto chi accetta di essere insultato e ride, è un complice dei suoi aggressori.

Il campo di questa battaglia sono le parole. E’ una questione anche di sopravvivenza, di economia, di vivibilità. Di recente ho avuto un problema di carta di credito con un albergo napoletano (sì, quando “scendo” dormo di fronte al mare, e mi sveglio alle 5 per commuovermi col sole che nasce dal Vesuvio e se ci sono le nuvole mi incazzo). Bene, chiamo l’impiegata della carta di credito che mi dice: “Sa, poi sono questi qui, non si sa mai…”. Scusi, signorina, sono napoletani, è questo che intende? E mi dà il suo nome che chiedo il suo licenziamento? Questo ho detto allora e questo vi dico. Se ti fai dire monnezza, “sei” monnezza. E se permettete, monnezza un cazzo.
Vittorio Zambardino

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