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Con Napoli-Chelsea, per la prima volta, ho provato una passione come ai tempi di Diego

Napoli-Chelsea è stata qualcosa di più di una partita. E’ stata una seduta di psicanalisi collettiva che ha coinvolto sia gli azzurri sia i tifosi che hanno assistito alla partita.

I 52 mila supporter accorsi al San Paolo martedì sera, e i milioni che hanno sofferto davanti a una tv, si sono scoperti finalmente proiettati nel presente. Sia chiaro: gli scudetti, Diego, Careca, Giordano, Bagni e tutti i protagonisti della stagione che, sola, fin qui ha saputo regalare al Napoli trionfi storici, sono e resteranno per sempre nel Pantheon azzurro. E al gol del 3 a 1 di Lavezzi, lo confesso, ho ripensato proprio a loro: mi è venuta in mente, non so bene perché, la rete dell’1 a 0 di Careca (su assist del dio Diego) nella semifinale Uefa del 1988-89 contro il Bayern a Monaco.

Una regressione di 23 anni in una manciata di secondi mentre, con gli occhi che si facevano rossi e umidi per il gol del Pocho, abbracciavo volti indistinti nel caos più felice. Le telecamere inquadravano Lavezzi e Cavani che festeggiavano, e io rivedevo Diego e Careca che esultavano. Mi sono sentito in colpa. “E’ come stare con la tua donna nel momento più bello e pensare alla tua ex”, mi sono detto.

Ma è forse proprio grazie a quello strano déjà vu, e ai meccanismi che l’hanno innescato, che poi ho aperto bene gli occhi sul presente.

Parlando della tragedia e della sua capacità di distaccare l’animo dello spettatore dalle passioni, Aristotele (cit. Wikipedia) “ne sottolinea l’effetto di purificare, sollevare e rasserenare l’animo, permettendo di riviverle intensamente allo stato sentimentale e quindi di liberarsene”. E’ la cosiddetta “Catarsi”, o purificazione.

Probabilmente io non mi libererò mai della passione che mi hanno fatto provare Diego e gli altri. Anzi, questo lo do per certo. Ma forse, per la prima volta, l’altra sera, assistendo a Napoli-Chelsea, sono riuscito un po’ a distaccarmene. Perché questo Napoli, almeno in Champions, ha ora la possibilità di scrivere una storia più bella di quella che abbiamo. Il presente può essere finalmente degno del passato e, per certi versi, superarlo.

C’è poi un’interpretazione minoritaria della “Poetica” di Aristotele che attribuisce la catarsi non solo agli spettatori della rappresentazione, ma anche agli stessi attori impegnati sul palcoscenico.

Qualcosa di simile, io credo, deve essere successa a Lavezzi dopo il suo secondo gol.

L’urlo del Pocho alla rete del 3 a 1 mi è sembrato infatti quello di un uomo consapevole di aver superato i propri limiti, liberandosene forse per sempre. E’ stato come assistere all’esplosione della rabbiosa meraviglia di chi ha messo finalmente la testa fuori dalla nebbia e comincia a intravedere le promesse del futuro. L’urlo del Pocho vomitava fuori i sacrifici, la tensione e il dolore per le critiche, ci sbatteva in faccia i momenti duri e la fragilità di un ragazzo che forse aveva cominciato davvero a credere, dentro se stesso, di essere un eterno incompiuto. Specie dopo aver fallito un’occasione clamorosa, nel giorno più importante, solo davanti a Cech.

L’urlo del Pocho, idealmente, è quello di tutto il Napoli; ha dato voce al dolente silenzio di Cannavaro dopo lo svarione che ha regalato l’1 a 0 a Mata, si è addolcito in sorriso nel gioioso abbraccio con il Matador Cavani, si è trasformato nel canto di gioia di un gruppo di ragazzi che sta crescendo imparando a superare i propri errori, se non proprio ad eliminarli.


Giovanni Brancaccio

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