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Joe Frazier, l’uomo che si sentì tradito da Muhammad Alì

Da New York per la Stampa – Era finito a fare il cantante di night, Smokin’ Joe, e girava ovunque fosse rimasto qualche appassionato di una boxe che non esiste più, per firmare autografi. Era ormai senza un dollaro, a parte quelli che racimolva allenando ancora pugili in una palestra di Philadelphia. Però aveva fatto pace con se stesso e soprattutto con Muhammad Ali, che era stato la sua fortuna e la sua rabbia. «Lo ricorderò sempre con rispetto e ammirazione», dice adesso Ali. Joe Frazier è morto lunedì notte perché lo ha sconfitto un cancro al fegato, ma anche perché il suo mondo non esisteva più. Un mondo fatto di passione e coraggio, dove un match di boxe, oltre a valere qualche milione di dollari, significava lo scontro tra due filosofie, due modi di essere per cui dividersi e lottare.

Joe non aveva conosciuto altro che questo, da quando era nato nel 1944 in una piantagione di cotone della South Carolina. Era ancora il tempo in cui i neri d’America non votavano, e se incontravano un bianco sull’autobus dovevano alzarsi per lasciare il posto. Il padre di Joe aveva questo terreno che non valeva niente, ma doveva tirarci fuori quanto bastava per far sopravvivere tredici figli, magari distillando liquore di contrabbando.

La sera si riunivano tutti davanti ad una televisione in bianco e nero per guardare i match di Sugar Ray Robinson e Rocky Marciano, e fu allora che lo zio Israel, guardando la struttura tozza di Joe, fece una previsione: «Questo diventerà il prossimo Joe Louis». Frazier aveva notato che i compagni di scuola chiedevano la sua protenzione per difenderli dai bulli, ma non aveva mai pensato che quella forza potesse diventare un mestiere. Si mise a prendere a pugni un sacco di tela, almeno un paio di ore al giorno. Una volta, correndo dietro a un maiale, si ruppe il braccio sinistro che restò piegato, ma proprio nella posizione giusta per tirare ganci. Intanto litigava con i bianchi del posto, ché al sud non davano tregua, finché la madre gli disse: «Meglio se vai a vivere al nord». Era partito in bus per New York, dove viveva uno zio. Lì aveva cominciato a salire sul ring, dove faceva a botte con Buster Mathis. Ma aveva ragione zio Israel: se la cavava così bene che in poco tempo era diventato una stella del pugilato dilettantistico, fino a ritrovarsi sul podio più alto delle Olimpiadi di Tokyo. Era la porta aperta sulla carriera professionistica, in una stagione irripetibile dove sul ring dei pesi massimi salivano Ali, Foreman e Ken Norton.

Nel 1967 Muhammad fu squalificato, perché non voleva fare il militare durante la guerra in Vietnam, e così proprio Joe si trovò la strada spianata per vincere il mondiale contro Jimmy Ellis. Ma Frazier sapeva che l’unica maniera per rendere legittimo quel titolo era contenderselo con Ali, perciò inziò a darsi da fare perché gli ridessero la licenza, inviando una petizione persino al presidente Nixon. Quando Muhammad fu pronto a tornare sul ring si trovarono al Madison Square Garden l’8 marzo 1971, per il «match del secolo». Un gancio di quel braccio sinistro accartocciato mandò Ali al tappeto, per la sua prima sconfitta. Lo «zio Tom», il «gorilla», il nero simbolo di un’America conservatrice e perduta aveva battuto l’emblema positivo della lotta per i diritti civili. Poi Frazier aveva perso il titolo con Foreman, ma si era rincontrato con Ali due volte. L’ultima per il «Thrilla in Manila» del 1975, diventato poi un film, che Muhammad avrebbe definito come «la cosa più vicina alla morte che abbia visto».

I due si odiavano, a quel punto, perché Ali sfotteva il «Gorilla» senza ritegno, e Joe si sentiva tradito: lo aveva aiutato quando stava nei guai. Perse Frazier, accecato dai pugni di Muhammad, e si portò dietro una rabbia che non lo lasciava più. Quando nel 1996 Ali accese la fiamma alle Olimpiadi di Atlanta, Joe disse che nella fiamma lui ci avrebbe lanciato Ali. Poi, nel 2009, la svolta: un’intervista con Sport Illustrated in cui Frazier giurava di non avercela più con Muhammad. Perché quel loro mondo era finito, finito per sempre, e non aveva senso lasciarlo, portandosi dietro una valigia piena di rabbia.
Paolo Mastrolilli (tratto da La Stampa)

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