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Le due Napoli (Saggio sul carattere dei napoletani)

È un fatto che qualsiasi turista, in qualunque tempo sia venuto a Napoli, allontanandosene, abbia dimenticato la miseria, il vicolo, le tristi passioni a cui sono dannati questi uomini e abbia serbato un ricordo vivace di Napoli. (…) Dovunque si parli di Napoli, c’è una disposizione a comprendere Napoli, che è in sostanza un’accusa alla sua pulcineria, alla sua corruzione in politica e in morale. Popolo sporco, dedito all’ozio, alla prostituzione, impoeticissimo! E la nostra meraviglia si leva in dubbio; per come sia stato possibile che un popolo corrotto, da quando se ne ha una memoria, sia ancora tanto vivo, anzi nella piena capacità d’insegnare qualche cosa agli uomini, di dare a loro, se non altro, uno spettacolo che gli stranieri chiamano vita piena. Essendo piuttosto difficile negare difetti e vizi, è da ricercare l’origine e la causa di essi. Il “perché”, rilevato in parte dagli storici, non è mai stato oggetto di studio della letteratura napoletana propriamente detta. (…) Il Di Giacomo ci dice ben poco dell’eterno fenomeno di Napoli. Egli è essenzialmente un poeta. (…) Leggendo le sue opere è quasi visibile lo sforzo del poeta di modellare il napoletano sulla lingua italiana. (…)Porta e Belli ci hanno dato dei milanesi e dei romani un’interpretazione minuta, quasi volgare della loro vita, vista, udita, sentita nei minimi particolari e resa in poesia. Erano uomini concreti. Il Di Giacomo resta invece un signore e non sa e non vuole sporcarsi. Non gli serbiamo rancore per questo, né gli togliamo un grammo di stima; ma anche lui di Napoli non ci ha dato, per così dire, l’”interno”. (…)
Quanti sono infatti i forestieri che rivolgono il pensiero a Napoli senza sorridere, sia pure in buona fede? Basta sapere che Tizio o Caio sia napoletano perché si abbia gusto di ascoltarlo o lo si inviti a cantare una canzone. E lui parla e canta, per non deludere. Ma quando ha finito di parlare e cantare, ossia di divertire il positivo forestiero che gli ha concesso del tempo prezioso, costui sembra dirgli: “Caro napoletano, ora ho da fare, con la tua spensieratezza non si mangia”. E il napoletano resta solo, con la sua miseria, nel suo abituro, fuori dei tempi moderni, tanto i suoi problemi sono animaleschi: la fame, le malattie, la brama di avere una casa decente. Questo momento di grandiosa solitudine e meditazione sul suo destino in cui resta il napoletano non è mai stato cantato né rappresentato. (…) Migliaia di napoletani camminano parlando non a se stessi, ma al loro corpo, composto di membri autonomi, che, nelle avversità, per resistenza passiva ad oltranza, dimostrano di essere all’altezza della situazione di tutto quel corpo, che è la loro famiglia. È una solitudine che al di fuori ha un atteggiamento di uomo in letargo e, di dentro, un ritmo appassionato. (…) Come un popolo tanto disposto al farsesco sia poi giunto a certi suoi grandi giorni, a Masaniello, al netto rifiuto dell’Inquisizione, alla Repubblica del ’99 e ai moti del 1820, non ce lo sapremo spiegare se dovessimo prendere sul serio la sua letteratura che si è lasciata attrarre quasi sempre dagli effetti e non dalle cause, che ha sottomesso la miseria al colore, non il colore ad essa. (…) Soltanto Mastriani può darci un’indicazione precisa, una topografia plastica e morale autentica della vecchia Napoli. (…) I quartieri di vicoli rassomigliano a un intricato apparato intestinale. Una città che si deve conoscere a memoria, priva com’è di ogni logica edilizia. Ma il napoletano vi sta dentro come in se stesso, e la sua anima deve rassomigliare a codesto intrico plastico, che si traduce in un intrico d’istinti e sentimenti.
(…) Vista sempre dall’alto, Napoli non ha avuto per una sola volta nella sua storia la fortuna di dare i natali a un solo artista che potesse guardarla dal fondo del pozzo. Il punto capitale per comprendere Napoli, che è la porta misteriosa di tutta l’Italia meridionale, non consiste più nel dipingere descrivere e cantare le sue creature umane dalle facce più strane, i suoi ragazzini di sei, sette, otto anni ancora così imperfetti da rassomigliare a neonati, o a quei feti mostruosi e prematuri che i medici conservano sotto spirito; i suoi vecchi e vecchie, residui fisici e decrepiti di epoche tolemaiche, ma nel recuperare lo spirito, le passioni nascoste, il mondo pre-alfabetico, intricato e complicato di cui si sa pochissimo. Solo scendendo in questo abisso a vortice si potrebbe venire a capo della meravigliosa vita psicologica di personaggi, capaci, dico capaci di tenere in braccio un topo e accarezzarlo e parlargli come a un cane o come a un qualsiasi amabile essere vivente. (…)
Napoli offre una storia ricca e multiforme, agitata come quella di una città americana, con la differenza che in America si tratta di forza vitale del dollaro e a Napoli della forza dei miserabili per vincere la miseria, la quale finisce per essere la ricchezza stessa della città; giacchè in suo nome tutto è ammesso e permesso.
(…) Re, governanti, turisti e poeti passano e se ne vanno. Anche il napoletano se ne andrebbe a vivere in riva al mare, dove l’aria sveltisce il cuore, o sulla collina del Vomero o ai Camaldoli, dove c’è odore di campagna e di cielo fresco. Egli è invece costretto a restare nel pozzo. Questa certezza ha trasformato il vicolo in una casa in comune, ha sviluppato l’istinto del mutuo soccorso – si prestano tutto: pentole, cibi, panni, scarpe, abiti – ma ha anche sollecitato un’indifferenza politica fatalistica, che ne ha fatto un popolo storicamente rachitico. La Napoli che si distende sul mare fino a Posillipo, non è Napoli. Essa vive lontano dal “ventre”. Vi sta al disopra e l’ignora. (…) Il signore si sveglia e ammira un mare vasto e placido, appena più azzurro del cielo, sotto un sole che ha la forza e la chioma della fiamma: ma non zampe tanto lunghe da calarsi nei vicoli e risuscitarli dalla “mezzanotte” in cui giacciono a mezzogiorno. Qualche tempo fa fui costretto a passare per il vico Zùroli a Forcella. M’inoltrai nel luogo stretto, profondo, cupo, largo un paio di metri, dove non è mai passata un’automobile. C’erano non bassi a destra e a sinistra, ma antri. Nel primo palazzo, a sinistra – e palazzo è un eufemismo di un accatastamento di buchi – vidi in un sottoscala di pietra grigia, vecchia, bucata, spugnosa, trasudante, sozza, un vecchio in un giaciglio, con mezza faccia illuminata da una candela magra e storta, in attesa della morte. Da una fessura del muro fissava – con sguardo immobile e in intelligente – il vicolo. Cercava di avere in bocca un’aria più fresca e di udire la voce della gente, che ancora – in quello stato – doveva piacergli. (…) MI sembrava, ed era in realtà, di non essere a Napoli, dove dieci minuti prima dal tram n. 3 avevo visto nel porto un transatlantico illuminato a giorno e mi era rimasta negli occhi l’apparizione di una signora alta e leggera che doveva avere tutti i pensieri della stessa fragranza del suo corpo, ma in un’altra terra, in un’altra nazione. Non molto dissimili debbono essere le impressioni di chi abita nella “zona franca” e si ricorda dell’altra Napoli, dell’altra nazione; salvo a non voler trascendere al barbaro concetto secondo cui questa gente è ignara e paga del suo stato e saremmo noi i pietosi che ci raffiguriamo ciò che essi non sentono. Molti di loro, specie nell’epoca del contrabbando, uscirono dal vicolo e godettero alcuni frutti del “nuovo mondo”. Finito il contrabbando, ridiscesero nelle tane; ma con una coscienza e uno spirito diversi, col tanfo della sporcizia del vicolo sull’anima e sotto il peso d una colonna d’ingiustizia piantata in mezzo al loro dissonante cuore. E, per giunta, senza poeti.

di Domenico Rea

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