Non posso fare a meno di intervenire nel dibattito aperto sul Napolista dopo la squalifica di Lavezzi. Premetto che sono un lavezziano convinto e penso che oggi il Pocho valga, da solo, almeno il 50% del potenziale offensivo di questa squadra, ma la sua “performance” romana è assurda e ingiustificabile. Spero che adesso per qualche anno non si discuta più sulla futura destinazione della mitica maglia numero 10, essere leader non significa saper saltare l’uomo o fare qualche assist da applausi. I veri numero uno devono essere innanzitutto uomini, capaci di subire falli e provocazioni senza reagire, senza seguire isterici istinti di reazione ma salvaguardando sempre gli interessi della squadra e dei tifosi. Diego docet! Detto questo mi sembra ancor più assurdo il serpeggiante moralismo, per la verità un po’ retorico e stucchevole, che circola intorno a questa storia. Ha fatto benissimo il Napoli a presentare ricorso, abdicare al diritto di difesa anche di fronte a una palese responsabilità significa negare un principio fondamentale del nostro Ordinamento che vale in ogni contesto giurisdizionale, anche in quello colpevolista e domestico della Giustizia Sportiva. Il processo, ogni processo è un accertamento di responsabilità e non necessariamente di verità. La verità storica e quella processuale non sempre coincidono perché sono le regole a stabilire, come un setaccio, quali frammenti di verità possono transitare nella sua griglia per formare il convincimento del giudice. Processo e regole, binomio imprescindibile e fondamento di uno Stato di Diritto. Basta leggere lo sgorbio giuridico, contraddittorio e incomprensibile, contenuto nella motivazione della sentenza di Tosel per rendersi conto che il suo convincimento probabilmente nasce altrove, forse nei salotti Mediaset o nella redazione della rosea gazzetta, e prescinde assolutamente dalla rigorosa applicazione di regole, che persino l’approssimativo e forcaiolo procedimento disciplinare sportivo impone. Penso che la prova televisiva sia l’ennesima spallata tecnologica alla magia del calcio, fatto anche di errori, di meravigliose cazzimme, di decisioni opinabili e discutibili che tanto appassionano noi antichi ed inguaribili malati. Quando si stabilisce una regola, però, bisogna rispettarla, anche di fronte alla evidenza dei fatti che ci indurrebbe a non applicarla, altrimenti non si è giudici e non si scrivono sentenze, ma si legittimano abusi e si finisce per assecondare i desideri dei soliti potentati calcistici. La regola dice che l’immagine televisiva per diventare prova deve essere chiara ed inequivocabile e, per fortuna, nonostante gli sforzi sovrumani di tutti i network questa certezza non è riscontrabile in quei frammenti sbiaditi. Bando ai piagnistei e ai vittimismi, insopportabili quanto i facili moralismi, ma sì a una difesa forte, argomentata e fondata, nel processo e con gli strumenti che le regole consentono ed impongono. Collega Grassani facci sognare… Claudio Botti
La sentenza di Tosel
è uno sgorbio giuridico
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