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Napoli-Juventus vale un derby, più di un derby

Si avvicina la ripresa del campionato: notturna al Meazza contro i campioni d’Italia e del Mondo. E chissenefrega. Noi già pensiamo alla domenica successiva. La piazza napoletana, i forum, il Napolista, e chi scrive in persona: siamo tutti proiettati all’ultima del girone d’andata. Anche il servizio sportivo del Tg Campania oggi titolava “san Paolo già tutto esaurito”, mica “Mazzarri prepara la gabbia su Coutinho”.
Ma perché tanto astio (anzi, siamo franchi: tanto odio) per la Juve? In Italia le strisciate sono unanimemente osteggiate, e il pubblico napoletano, detestandole tutte e tre, si colloca nella media. Ma lo fa a suo modo. Per l’Inter proviamo un po’ di rivalsa in stile “Davide contro Golia”, con un substrato di diffidenza nord-sud. Sul sentimento anti-Milan influisce molto il retaggio degli anni ’80. Ma per la Juve è odio puro, alimentato da un’ostilità viscerale, epidermica. E’ la storia di un lungo conflitto nel quale il passaggio di Quagliarella rappresenta solo l’ultima sanguinosa battaglia.
Un mio collega juventino mi ha più volte rimproverato: “la rivalità voi napoletani la vivete in maniera provinciale”. E forse ha ragione. Alla sfida del 9 gennaio ci stiamo pensando dal 27 agosto, giorno in cui fu ufficializzato il passaggio della Quaglia della discordia ai bianconeri. Interpretiamo l’antagonismo per gli zebrati in un modo che mi ricorda l’atmosfera romana, come se fosse un… derby!
E allora individuo quella che per me è la principale tra le ragioni che danno origine al nostro odio per la Juve (perché, come ogni fenomeno sociologico complesso prevede, tanto astio ha più cause). Napoli-Juventus vale un derby. Gli juventini sono tanti a Napoli, in Campania e nel Mezzogiorno in generale. Sono più degli altri strisciati: se sommo gli interisti e i milanisti del mio entourage, il totale non arriva alla metà degli juventini che ho in rubrica sul cellulare. Non sono certo tanti quanto i napoletani, ma sono numerosi e fanno massa. Ne deriva che dall’esito dell’incontro con loro ne va la nostra serenità quotidiana. Perdi con il Chievo, amen: quando lo incontri un clivense sugli scogli di santa Lucia? Ma se perdi contro gli zebrati, è la fine. Sarebbero discussioni e sfottò quotidiani fino alla partita di ritorno.
Ma non basta. Il supporter bianconero nato e vissuto sulle sponde del golfo, alle pendici del Vesuvio, nell’area flegrea e così via, somma un peccato imperdonabile alla semplice defezione dai colori biancoazzurri (il tifo è uno stato d’animo totalitario e in quanto tale non conosce pluralismo). Egli compie un’empietà. E’ come il nemico del popolo in un regime sovietico, il nemico della nazione nella retorica di destra, il nemico della rivoluzione in Iran: lo juventin-napoletano è un uomo (o una donna) che volta le spalle alla propria terra e alla propria gente, e vende l’anima al ricco straniero. Egli dedica la propria passione al club che rappresenta insieme il savoiardo conquistatore, l’algido settentrione che sfrutta e si disinteressa del meridione, e il gruppo industriale più discusso e discutibile della storia economica dell’Italia unita. Per questo guadagna un odio (sia chiaro, calcistico) senza mediazione.
Certo, quanto appena detto è valido per tutti quei napoletani che non tifano per il Napoli (presumibilmente sosterranno una squadra del nord, o al massimo una romana: ancora non ho conosciuto un partenopeo supporter della Reggina). Ma gli juventini, come dicevo, sono tantissimi, e in quanto tali incarnano il problema. Ma per me rimane la principale spiegazione: l’anti-juventinismo dei napoletani non è figlio del caso, è una questione socioantropologica.
di Roberto Procaccini

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