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Generazione ’85, crescere napolisti in anni bui

Per tre giorni ci avevo seriamente creduto. Mi ero emozionato. Ero partito per la tangente. “Il Napoli è una squadra che può lottare per lo scudetto”. Wow!
E poi è venuta la sconfitta. Contro una diretta concorrente. Netta nel risultato, non sul piano del gioco. Ma pur sempre una cocente disfatta. Che mi riporta coi piedi per terra.
(Anche se, secondo me, se a gennaio stiamo ancora là e facciamo gli acquisti giusti… ).
Però è  stato bello. Come ogni cosa che dura poco, è stata molto intensa. Chi ha qualche anno di più non può capire per uno nato a metà degli anni ’80 che soddisfazione unica sia stata poter pensare, anche se solo per qualche giorno, “la squadra della mia città, quella per cui tifo, è vincente e può puntare al risultato massimo, al tricolore”.
Perché noi, quelli della mia generazione, siamo nati in ritardo su tutto. Troppo piccoli per vivere e godere veramente della stagione maradoniana, ci siamo affacciati al calcio quando si approssimava il medioevo azzurro. Personalmente, la prima partita allo stadio è stata Napoli Milan, 1 a 0 con prodezza di Paolo Di Canio. Era la primavera del ’94, non avevo ancora compiuto 10 anni. Diego apparteneva già al passato. Quattro anni dopo saremmo retrocessi in B.
Dopodiché ho vissuto lunghi anni di stenti e mediocrità. La stretta osservanza napoletana della mia famiglia e il mio senso dell’ortodossia non hanno permesso che uscissi dal tracciato della fede azzurra. Ma mentre parte dei miei coetanei cedeva alla tentazione provinciale di tifare per il trio degli apolidi italiani (Inter-Milan-Juve), io mi scontavo stagioni su stagioni di serie minori o A striminzita. Per rendere l’idea dello sconforto nel quale mi sono formato, la partita di campionato che seguì di qualche giorno il mio diciottesimo compleanno, vale a dire quando ero nel pieno della beata gioventù, fu un Napoli-Livorno di serie B, partita che per di più perdemmo. La massima serie come un miraggio, la decadenza come orizzonte di vita.
Noi nati metà dell’80, a dirla tutta, siamo nati in ritardo su molte altre cose, non solo su quelle che riguardano il calcio. Del rinascimento vero o presunto di Napoli non abbiamo capito niente, ma ci siamo solamente ritrovati maturi con una città già arresa. Dal punto di vista economico, non ne parliamo: per noi gli yuppies è solo uno dei primi film del presidente. Del benessere artificiale degli eighties abbiamo sfruttato i residui infinitesimali. Concludiamo gli studi a cavallo della più feroce crisi dai tempi del ’29. “Inserimento nel mondo del lavoro” è una frase provocatoria. Non abbiamo idea di cosa sia la liberaldemocrazia, socialista è sinonimo di ladro, siamo cresciuti sotto l’egida berlusconiana e di un centrosinistra in crisi di identità. In un certo senso abbiamo la sconfitta nel dna.
E la cosa che ci frega è che la generazione che ci segue, i nati nei ’90, probabilmente non avranno i nostri problemi. Sono adolescenti e il Napoli si è messo il peggio alle spalle; diverranno adulti e magari anche la crisi sarà un ricordo del passato, mentre la politica italiana vivrà uno slancio di idee e programmi.
E’ inevitabile che la mia generazione abbia sofferto di una sorta di depressione cosmica che ora strane ripercussioni nel nostro modo di vivere il presente. Tornando al calcio, direi che per la maggiore siamo abituati all’idea che il Napoli, ontologicamente, a certi livelli non ci possa mai arrivare. Da ragazzino ho finanche invidiato il Perugia che per lo meno un po’ di A se la faceva. E adesso ci sono dissonanze cognitive nell’interpretare il reale.
Con questo pedigree, la vittoria a Cagliari mi aveva già lanciato nell’empireo. Ogni falcata del Pocho verso la porta difesa da Agazzi era un’iniezione di fiducia. Il gol è stato una liberazione. Questi giorni, col Napoli lì in alto e l’idea che con una vittoria all’Olimpico e un paio di risultati favorevoli ci saremmo trovati per una settimana in testa, è stata una scarica di adrenalina pari solo a quella del sogno obamiano per i progressisti americani dopo otto anni di Bush.
Forse tutto ciò è esagerato. Ma a Napoli abbiamo maledettamente bisogno anche di questo.
Roberto Procaccini

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