Ecco perché amo il calcio

“La differenza tra le cose possibili e quelle impossibili è che per quelle impossibili ci vuole più tempo”, lo diceva Helenio Herrera, un mago, un filosofo, uno che di sicuro ha cambiato un po’ il mondo del calcio italiano ed è la prima cosa che mi è venuta in mente, ieri, dopo la straordinaria partita […]

“La differenza tra le cose possibili e quelle impossibili è che per quelle impossibili ci vuole più tempo”, lo diceva Helenio Herrera, un mago, un filosofo, uno che di sicuro ha cambiato un po’ il mondo del calcio italiano ed è la prima cosa che mi è venuta in mente, ieri, dopo la straordinaria partita contro lo Steaua. Sì, straordinaria. La partita che a tutti sembrava impossibile: impossibile che a 15 minuti dall’inizio stessimo perdendo 3-0 ed impossibile che al 97° fossimo arrivati al 3-3.
E allora vi spiego perché amo tanto il calcio: non solo perché è uno sport di squadra, ma anche perché credo fermamente che solo nel calcio quello che ti sembra impossibile può realizzarsi nel giro anche di soli 3 minuti e sono certa che ognuno di voi potrebbe ricordare episodi in merito. E non dipende dalle qualità fisiche, né dalla preparazione atletica, proprio come accade nella vita. Ho imparato sulla mia pelle che, per quanto si abbiano tutte le capacità del mondo, non è detto che si riesca mai a giocare la partita della vita.
Occorrono le motivazioni, il carattere, la voglia di farcela, di non essere mediocri, la voglia di combattere, tutte cose che io ho visto nel Napoli di ieri e in quello contro il Cesena. Ma ditemi voi se, con questi chiari di luna, eravate davvero convinti che, dopo uno svantaggio, gli azzurri si sarebbero ripresi così! E’ successo a Cesena ed è successo a Bucarest, ma la Romania ha dato tanto gusto in più. Perciò piantiamola tutti. Ma voi credevate davvero che, a parte Cavani, avessimo fatto acquisti degni di nota? E credevate davvero che sarebbe scesa la mano di Dio ad illuminare i nostri con la Grazia celeste (o azzurra)? Vi accorgete tutti solo ora che abbiamo una difesa che non è possibile più rammendare come vecchi calzini bucati? È esattamente questa che deve essere la nostra forza: la nostra debolezza. Ognuno motivi se stesso, perché l’allenatore può fare poco se non si desidera essere motivati. E quando non sei un fuoriclasse, atleticamente, sportivamente, tecnicamente e di cervello non c’è allenatore che tenga, bisogna prima di tutto essere convinti di potercela fare, amare, sentire.
Ricordo una splendida Roma l’anno in cui Totti non riuscì a giocare per l’infortunio: dov’erano i grandi campioni, in quella squadra? Eppure vincevano tutto e lo facevano con una grinta che appassionava anche una napolista come me. E ricordo un’Inter pazzesca, stratosferica per i nomi e i talenti della rosa che, sì, vinceva pure, ma era noiosissima, inguardabile, da voltastomaco. Vinceva facile, appunto.
A me questo Napoli piace. Ha carattere. Nonostante milioni di limiti. Ma i limiti possono essere superati. Basta non arrendersi mai. Prima o poi si vince. Tutto è possibile e l’impossibile è solo una questione di tempo. Io ieri ho visto una delle partite più belle di tutti i tempi. Io non voglio vincere sempre, non voglio vincere facile. Preferisco dieci pareggi sudati e bellissimi come quello di ieri ad una sola vittoria perfetta, senza stile, senza carattere, per inerzia. Chiamatemi pazza, ma io godo così.
Il calcio è tutta una questione antropologica e culturale. In una città dilaniata come la nostra, il calcio è tutto ciò che ci resta, l’unica passione incontrastata, tutto ciò che ci rende sopportabile la settimana di strazio: l’ arrivo della domenica e delle partite, lo stadio, l’adrenalina, il rito catartico e liberatorio. Ma attenzione a non cadere nel vittimismo tipicamente napoletano, anche quello una questione antropologica e culturale: è brutto e triste affidarsi a santi, patron o mister.
Il miglior motivatore di un uomo, che si tratti di un calciatore, un disoccupato, un cassintegrato o un professionista affermato, resta sempre se stesso. È l’unica risorsa che abbiamo: la nostra fame di vita, fosse anche semplice sopravvivenza imposta  dagli altri e da una città che ci ammazza quotidianamente. È necessario avere fame di vita, è un dovere verso noi stessi. Smettiamola con le accuse a chi non ha comprato chi, a chi non ha voluto chi. Questo è quello che abbiamo. Farà anche schifo, per diversi aspetti, ma si può fare qualsiasi cosa con quello che abbiamo, sicuramente con quello che si è visto in campo ieri sera.
Crediamoci tutti, forza, cosa ci costa, in fondo? Non è meglio trovare una motivazione ed un senso piuttosto che piangere? E allora! Sì, lo so, tra due giorni c’è la Roma. Sono preoccupata anch’io. Ma sono affamata di colori, ho fame di azzurro, di vita e di spettacolo. Probabilmente mi intossicherò di nuovo, allo stadio, ma resterò a sperare fino all’ultimo secondo perché tutto, tutto può succedere, tutto è possibile. E applaudirò: perché è una squadra che mi piace. E se muoio di infarto, sulla mia lapide scrivete solo: Ilaria Puglia, napolista e mamma. Per entrambe le cose ci vogliono le palle sotto. Forza Napoli. Sempre.<em>
<strong>di Ilaria Puglia</strong></em>

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