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Napoli si è incattivita,
anche sugli spalti

Chiariamoci su un punto: la nostalgia nel calcio è tutto. È giusto che si parli non solo dei vecchi eroi, ma anche delle vecchie sensazioni provate allo stadio, com’è successo grazie al Napolista e all’articolo di Roberto Procaccini. Difficile imbattersi in una discussione così ricca di spunti intelligenti su un tema tanto strano, laterale. Trovo giuste molte delle considerazioni fatte sull’evoluzione della fenomenologia ultras, e forse si può aggiungere qualcosa che riguarda particolarmente Napoli. I cori. Sono una cosa importante. Andare allo stadio, lasciarsi travolgere da un inno insieme con altre migliaia di persone, è una delle cose per cui credo molti di noi amano il calcio. Ed è un’esperienza che la tv non potrà mai surrogare, grazie a Dio. Mi commuovo quando in trasferta vinciamo e i “tifosi emigranti” (come il sottoscritto) intonano oj vita oj vita mia. È bellissimo, è la nostra storia, la nostra identità. Vorrei dire ai “ragazzi di curva” (anch’io sento ancora di esserlo) che non c’è nulla di patetico e folkloristico nel cantare quell’inno: possiamo essere diventati tutti, nessuno escluso, più “casual”, come si dice, ma questo non c’impone affatto di vergognarci delle nostre belle cose, delle canzoni appassionate. E invece gli ultras del San Paolo si vergognano. In genere quando parte ’o surdato ’nnammurato fanno segno alle file retrostanti di non cantare.
È una sciocchezza, permettetemi. E non venite a dire che bisogna difendere l’immagine della città dallo scadimento oleografico. Si può essere dignitosamente napoletani, orgogliosi e austeri, senza per questo dimenticare la tradizione. Guardare al futuro e fare finta che il passato non esista: che senso ha? Come se davvero avessero ragione i tifosi delle altre squadre a sfotterci per la nostra teatralità caciarona. Io non mi vergogno, per nulla. A Firenze l’anno scorso è stato bellissimo trovarsi con quelle poche centinaia di tifosi emigranti a cantare a squarciagola la nostra canzone. Non c’erano gli ultras e non hanno potuto impedirlo. Ci siamo presi lo stadio – anche in tribuna, non ci fermava nessuno – e mi sa che Massimiliano e Fabrizio se lo ricordano bene.
Il fatto a mio giudizio è che Napoli si è incattivita, negli ultimi lustri, e questo lo vedi anche sugli spalti. Dice benissimo Iamino in una delle repliche all’articolo di Roberto: la minore partecipazione del tifo è legata a «un più complessivo scadimento della socialità negli ultimi anni, in particolare a Napoli». Gli ultras del Napoli sono diventati più duri, diciamo “meno sentimentali”. Non cantano per i giocatori. Forse hanno ragione, ricordo che nei primi anni Novanta ne parlai con uno dei capi dei Vecchi Lions (diventato poi un amico molto caro), già allora era così. Capisco, per carità, ma questa “distanza” tra il tifo e la “squadra in carne e ossa” (la maglia è fatta di cotone) è una forma di pudore che a volte tracima nel parossismo. Parliamo pur sempre di calcio, di una passione sfrenata, o no? Dicono: è cambiato il mondo ultras, lo spirito delle curve. Meno folklore vuol dire anche meno interessi. D’accordo. Ma non ditemi che è solo questo. La verità è che ci siamo tutti incupiti, a Napoli. È che la durezza esibita e funzionale dei duri da strada si è impadronita della nostra cultura. È quella ferocia cieca che nella sua espressione più estrema dà vita ai protagonisti di Gomorra. E che nella sua via di mezzo diventa il ghigno in cui t’imbatti quando a Napoli hai una lite per motivi di viabilità. La città è diventata più triste anche perché è più violento il suo sistema di vita. E figurati se i capi delle curve non devono obbedire a questo nuovo codice. Non è solo codice ultras, è il linguaggio della violenza metropolitana tipico della Napoli di oggi.
Non mi andava di esagerare, forse ho finito per farlo. Ammetto che se al San Paolo si canta meno e – spesso – male, è anche per altre ragioni, molto banali. Perché per esempio, tanto per essere pratici, la parola “Napoli” è metricamente ostica. I cori riescono e trascinano anche e soprattutto quando sono fluidi, divertenti, facili a imparare. Negli ultimi anni i cori migliori inventati dagli ultras del San Paolo sono quelli spuntati fuori nel 2001, in occasione del mitico (secondo me) corteo contro Corbelli e Ferlaino. I ragazzi di curva del sito sanno di cosa parlo: indimenticabile “la partita di pallone” di Rita Pavone trasformata in “vattene via, Ferlaino peggio della polizia…”, o “che sarà” mutata in “via da qua, via da qua, Ferlaino via da questa società…”. Ma fateci caso: sono cori duri, di odio, quelli meglio riusciti. E dite che non è la prova di quanto ci siamo incattiviti?
Errico Novi

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