Una cena a casa Bruscolotti

Venerdì sera, discesa Coroglio 79, Locanda 10 maggio 1987, il ristorante dello storico difensore del Napoli Beppe Bruscolotti, il mitico Pal’e fierr. Quando arrivo lui è seduto comodamente in poltrona nel fumoir, circondato da un gruppetto di persone e dalle foto dei tempi d’oro. Un timido “buonasera”, manco fossimo degli adolescenti di fronte al leader […]

Venerdì sera, discesa Coroglio 79, Locanda 10 maggio 1987, il ristorante dello storico difensore del Napoli Beppe Bruscolotti, il mitico Pal’e fierr. Quando arrivo lui è seduto comodamente in poltrona nel fumoir, circondato da un gruppetto di persone e dalle foto dei tempi d’oro. Un timido “buonasera”, manco fossimo degli adolescenti di fronte al leader di un complesso rock. Entriamo, ci sediamo, ordiniamo. Mi guardo intorno per tutto il tempo. Il ristorante è carino, essenziale. Forse l’illuminazione lo rende un po’ freddo, ma la simpatia dei camerieri e la bontà del cibo ne fanno un posto molto gradevole. E poi c’è la storia attaccata alle pareti, la storia nello scudetto ricamato sulle divise del personale, la storia in quell’omone grande e grosso eppure riservatissimo che resta in disparte.
Quando in sala entra Mary, sua moglie, sorridente, è una festa, un altro pezzo di storia in carne ed ossa. Dopo il tiramisù e il Passito paghiamo il conto e ci avviamo all’uscita. Io timidissima, ho cercato invano per tutto il tempo una possibilità di aggancio, la possibilità di parlare con uno dei due, ma sono rimasta seduta in panchina senza possibilità di sostituzione. Entriamo nel fumoir, percorso obbligato per uscire dal locale e lui è lì. Buonasera e gli stringiamo la mano. Mio marito mi fornisce un paio di assist ma io resto immobile davanti alla porta che non riesco a muovere un muscolo, non sto nelle gambe. Però azzardo e mi siedo sul divano accanto alla sua poltrona. Dividiamo la stessa aria, lo stesso spazio. E comincio a pensare che ho appena stretto la mano di un uomo che ha toccato Maradona migliaia di volte, perciò, per la proprietà transitiva, è come se avessi toccato il Pibe anch’io. Un uomo che ha visto il San Paolo con 80mila persone acclamare una squadra vera.
Ci fermiamo a parlare. Lui è di pochissime parole, ma estremamente affabile. Ricordiamo i tempi dello scudetto, ci racconta di quando si è ritirato. Gli dico che sua moglie per me è un mito per come riusciva ad aggregare la squadra e i suoi occhi si illuminano. Erano altri tempi, dice, condividevamo. Sì, durante la settimana uscivamo con quelli con cui andavamo più d’accordo, ma periodicamente, volutamente, si metteva insieme tutta la squadra. Eravamo un gruppo. Adesso è diverso. Mi dà ragione sulla capacità della moglie di aggregare le altre mogli e di fare squadra attorno alla squadra: un ruolo fondamentale, quasi un lavoro. Poi mio marito gli dice che collaboro con Il Napolista. Sì, l’ho sentito, dice lui. Io, timidamente, gli racconto che la mia rubrica si chiama O cor’ int’e cazette. Lui mi guarda e si lascia andare ad una sonora e tenerissima risata. Mio marito dice che è ora di andare. Guardo l’orologio: da quando sono entrata nella Locanda ad ora sono passati esattamente 90 minuti. La mia personalissima partita. Il mio personalissimo goal.

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