Con Mancini avevo un conto aperto dal 2005

Ci sono persone oggettivamente antipatiche che per il solo fatto di essere anche brave alimentano la tua irritazione nei loro confronti, decuplicando involontariamente la propria antipatia. Non è colpa loro, ma neanche tua, che anzi cerchi di rimuovere le tue pulsioni e quasi ti senti in colpa, ti sforzi di farteli piacere. Perché loro sono […]

Ci sono persone oggettivamente antipatiche che per il solo fatto di essere anche brave alimentano la tua irritazione nei loro confronti, decuplicando involontariamente la propria antipatia. Non è colpa loro, ma neanche tua, che anzi cerchi di rimuovere le tue pulsioni e quasi ti senti in colpa, ti sforzi di farteli piacere. Perché loro sono bravi e tu non sei invidioso, te ne devi convincere. Ma alla fine ti arrendi: ti stanno sul cazzo e basta.

Roberto Mancini, per me, è uno di questi. Ma potrei fare altre esempi illustri, ovviamente assolutamente personali: Massimo D’Alema, Beppe Fioroni, Oliviero Diliberto, Carlo Giovanardi, Roberto Calderoli, Claudio Scajola, Maurizio Sacconi, tra i politici; Enrico Varriale, Mario Sconcerti, Stefano Bizzotto, Fabio Caressa, tra i colleghi; per non dimenticare tra i cantanti Morgan, Vinicio Capossela, Antonello Venditti, Anna Tatangelo, perfino Peppino Di Capri, quando ci rifila l’ennesimo Champagne come fosse un capolavoro immortale. E’ il mix tra oggettiva bravura e malcelata supponenza spacciata per falsa modestia a creare, a miei occhi, il mostro di antipatia. Per essere ancora più chiaro, non cito Mourihno e Marco Travaglio, due personaggi la cui bravura è inversamente proprizione alla propria simpatia: ma loro non mi irritano, anzi, mi divertono, ne sono contraddittoriamente attratto perché ne ammiro la capacità di esibire se stessi senza infingimenti buonisti.

Torniamo a Roberto Mancini. Con lui, fino a ieri sera, avevo un conto aperto di cui ho recuperato anche l’origine: 12 agosto 2005. Eravamo al San Paolo per il Trofeo Moretti, il Napoli appena acquistato da De Laurentiis si preparava al campionato di serie C ma la tifoseria sperava ancora in un salto di categoria grazie a un ripescaggio che poi non arrivò. Quella sera, allo stadio, c’ero anche io, per quella festa “stracciona” alla quale partecipava la grande Inter di Roberto Mancini. Quella sera il Napoli vinse due a uno, con gol di Bogliacino e Pià (poi battemmo anche la Juve ai rigori) e lo stadio risalì per un paio d’ore dagli inferi del calcio.

Eravamo tristemente euforici, come siamo spesso e volentieri noi napoletani quando ci ritroviamo a ripartire da zero, avremmo voluto che qualcuno ci lasciasse vivere quella sensazione di potenza, quell’idea di essere lì a fare lo sgambetto a una grande, a consumare la nostra inutile vendetta sul grande calcio che aveva salvato tante big dal fallimento ma aveva cancellato noi alla prima cambiale non pagata. A fine match parlò Mancini. Disse che la sconfitta non faceva testo, che era solo un’amichevole, che in campo c’erano le riserve, sorrise ironico e quasi infastidio a chi gli chiedeva se era dispiaciuto per la sconfitta contro quel Napoli di terza categoria. Per la cronaca, in campo, contro i Gatti e i Capparella, era scesa gente come Adriano, Martins, Zanetti, Favalli e Cambiasso. Io attendevo Mancini al varco da quella sera. Perché se l’amore è solo piccoli dettagli, come canta Giusy Ferreri, l’antipatia è solo piccoli rancori.
Luca Maurelli

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