Velasco: «Basta col mito della squadra come una famiglia, le famiglie sono piene di casini»
Al podcast del Post. «Se il gruppo unito gioca male, vince? No. Non c'entra niente l'amicizia. Ci si aiuta perché fai bene il tuo lavoro. E lo fai per vincere"

Italy's head coach Julio Velasco (C) celebrates with Italy's #18 Paola Ogechi Egonu and team mates after the volleyball women's quarter-final match between Italy and Serbia during the Paris 2024 Olympic Games at the South Paris Arena 1 in Paris on August 6, 2024. Italy won the match 3-0. (Photo by PATRICIA DE MELO MOREIRA / AFP)
“La colpa è nostra. Soprattutto dei giocatori. Quando gli mettono il microfono davanti dopo una vittoria dicono tutti ‘abbiamo vinto perché siamo uniti, siamo come una famiglia, ci aiutiamo’. E io dico sempre: speriamo che la mia squadra non sia come una famiglia. Perché le famiglie sono piene di casini. A me basta che sia una squadra”. Julio Velasco disinnesca il mito della squadra di amici, un classico da libro cuore della retorica sportiva, soprattutto pallonara. Ne parla nel podcast del Post “Wilson”, registrato tra l’altro in una serata al Teatro Bellini di Napoli. Lui si sforza di non fare il guru, ma gli viene naturale.
Velasco spiega, con la solita incisività: “E’ vero che uno dopo una vittoria sente come una fratellanza. Appena dopo aver vinto uno andrebbe in vacanza con i compagni di squadra, perché si crea una cosa quasi mistica che però poi passa. Però quando si dice che la chiave è il gruppo unito, l’ho sentito molto quando l’Italia ha vinto gli Europei di calcio con Mancini, io penso: se il gruppo unito gioca male, vince? No, si perde se si gioca male. Per giocare bisogna essere amici? No. Non è necessario. E’ impossibile: che facciamo, una comunità di amici perché le cose funzionino?”.
“In una squadra i ruoli sono molto chiari, e sono diversi tra loro. E se quelli funzionano, la squadra funziona. Ma l’elemento ancora più importante è che l’aiuto tra i giocatori non è perché sono amici, non è perché c’è un imperativo etico. E’ perché è parte del gioco. Se uno non fa certe cose, per aiutare i compagni, gioca male. Nella pallavolo quando uno schiaccia, tutti gli altri devono pensare che lo murano. Non è che quando attacca Silvia in posto 4, uno pensa Silvia è una brava ragazza, non se la tira, guadagna quanto me, allora quando lei schiaccia tutti andiamo in copertura. E che invece quando attacca Elena in posto 2, quella se la tira, guadagna tre volte quello che guadagno io, che lei si arrangi. No, si va a coprire per Elena anche se non andiamo d’accordo. Perché è parte del gioco: non c’entrano niente l’amicizia, la famiglia, la buona volontà. Il gioco di squadra è necessario, le altre cose se ci sono tanto meglio. Soprattutto in Nazionale dove si convive molto. Ci sarebbe da chiedersi: è il gruppo unito che fa funzionare la squadra, o è la squadra che funziona che fa il gruppo unito? Se si vince è tutto più facile”.
“Un altro errore è quando sento dire all’interno della squadra non ci sono interessi individuali. Anche alcuni miei colleghi lo fanno: presentano lo spirito di squadra come un ambiente quasi ideale. La frase che usano molto gli allenatori di calcio: quando l’io diventa noi, allora ci siamo. L’io non diventa mai noi. Sono due cose che coesistono. All’interno delle squadre ci sono gli interessi individuali ed è normale che ci siano. E tanto più quando c’è professionismo di mezzo, uno che non gioca perde valore non solo tecnico. Non è che abbiamo un buon spirito di squadra quando l’io scompare, ma quando l’interesse collettivo è così importante che controlla gli interessi individuali”.











