Lo sport è business. Per guadagnare di più, bisogna giocare di più. Davvero c’è qualcuno non l’ha capito?

Gli atleti non ce la fanno? Nessuno li obbliga, basta dire di no. I no però hanno delle conseguenze. Poiché nessuno dice no, Fifa, Uefa, Atp (eccetera) e i club organizzano sempre più competizioni. È il fatturato che fa legge. Per tutti

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Italy's Jannik Sinner (L) is helped by a medical trainer during his men's singles match against Netherlands' Tallon Griekspoor (not pictured) at the Shanghai Masters tennis tournament in Shanghai on October 6, 2025. (Photo by Hector RETAMAL / AFP)

C’è qualcosa che non quadra nella narrazione dello sport professionistico. Siamo circondati da notizie che circumnavigano la legge fondante dello sport professionistico, ossia: è un sistema capitalistico basato non solo sulla circolazione del denaro ma sulla tendenza all’accumulazione indefinita di capitale. Con una distribuzione dei soldi per nulla equa. Pochi eletti guadagnano tantissimo, alcuni guadagnano cifre ragguardevoli, tanti si agitano e navigano ai bordi di periferia.

La premessa marxista è doverosa per affrontare due tre argomenti che sembrano diversi ma che sono affluenti del medesimo fiume.

Uno è la stanchezza e le crescenti lamentele dei professionisti (tennisti, calciatori, cestisti, ciclisti eccetera) che non reggono più i ritmi. Sinner si ferma per crampi. Djokovic vomita in campo. Raducanu avverte un calo di pressione. Il sindacato calciatori ormai un giorno sì e l’altro pure dirama comunicati sul calendario folle che manderebbe al massacro i loro tesserati. Jurgen Klopp, che ha dichiarato di vivere benissimo senza allenare e ha comunicato che mai più tornerà in panchina, ha detto che tanto è inutile parlarne con la Fifa. L’ultimo battibecco, in ordine di tempo, è quello tra Rabiot e l’amministratore della Lega Serie A De Siervo. Con Rabiot che a Le Figaro dichiarache è da folli giocare Milan-Como in Australia e De Siervo che gli risponde più o meno (non proprio così ma il senso è quello): “Non sputare nel piatto dove mangi e fatti spiegare com’è che te e quelli come te portate a casa stipendi che le persone normali non riescono nemmeno a sognare”. Dagli torto a De Siervo.

In tutta onestà, con tutto lo sforzo che possiamo compiere, proprio non ce la facciamo a essere in pena perché i professionisti dello sport non riescono a reggere i ritmi. Corriamo il rischio di essere tacciati di agroppismo, dal buon Aldo che disse che lo stress ce l’aveva suo cognato che lavorava a Piombino per lo stipendio da metalmeccanico. Più o meno il punto è lo stesso. È vero che il sistema professionistico d’eccellenza tende in qualche modo a stritolarti. In cambio di denaro, richiede sempre più prestazioni. Ma nessuno punta un coltello alla gola dei professionisti. Sinner e Alcaraz, e come loro altri, non sono obbligati a giocare tutti i tornei. Ne saltano qualcuno. Non muore nessuno. Ovviamente saltando qualche torneo, ci sono meno chance di diventare numero uno e quindi significa in qualche modo meno contratti pubblicitari. La giostra è lì, ben in evidenza. Il meccanismo è chiarissimo. Ma non possiamo certo definirlo una garrota.

Lo stesso vale per i calciatori. Oggi i contratti sono zeppi di clausole. Non vuoi giocare più di cinquanta partite in un anno col tuo club? Oppure non più di quaranta? Lo metti nel contratto. Ovviamente guadagnerai di meno. Altrimenti siamo al cane che si morde la coda. La piramide dei soldi del calcio è fin troppo chiara. Fifa e Uefa sono vere e proprie aziende, oltre che organizzazioni politiche. Per aumentare i ricavi, devono aumentare non tanto le partite e le competizioni, quanto le partite e le competizioni ad alto livello. Che sono quelle che interessano al pubblico televisivo (e non solo). Per lo stesso motivo, anche i club vogliono giocare di più. Più incassano, più possono permettersi calciatori forti e rimanere nell’élite. Idem per i giocatori. Sono ritmi sovrumani? Possono essere ridotti. Basta sapere che a ritmi ridotti equivalgono stipendi ridotti. La sensazione è che tutti i professionisti lo sappiano. In qualsiasi sport.

Legato a questo discorso c’è quello relativo alle trattative in atto per la nuova Champions che la Uefa starebbe progettando insieme alla società della Superlega. Anche qui c’è stata e ci sarà una levata di scudi anche perché il nuovo torneo sottrarrà spazio ai campionati nazionali. È ovvio, ribattiamo noi. Se ne parla da decenni. Quando De Laurentiis disse che il Frosinone non sarebbe mai dovuto stare in Serie A, diceva il vero dal punto di vista imprenditoriale. Lo sport professionistico è business. Poi è anche agonismo. Ma è principalmente business. Altrimenti il progetto Superlega non sarebbe mai stato partorito. È stata la risposta a un’esigenza. E puoi sopprimerla per qualche anno ma torna a galla perché quell’esigenza persiste. Le persone sono disposte a pagare più per Barcellona-Bayern che per Sassuolo-Udinese oppure per Metz-Montpellier. Non ci sembra una scoperta clamorosa. È semplicemente la realtà.

I discorsi sul romanticismo del calcio hanno fatto il loro tempo. Bisognerebbe cominciare a parlare di sport sempre in riferimento al fatturato, ai ricavi. Con un linguaggio economico-finanziario. Il sistema, per reggersi, ha bisogno di accelerare. È il sistema capitalistico, bellezza. Che – attenzione – sta bene se non a tutti, certamente a tanti. Compresi i tifosi. Che “vogliono vincere”. E per vincere devi avere calciatori forti e quindi fatturare di più. Per fatturare di più, devi giocare di più. E devi giocare più manifestazioni ricche. Come il Mondiale per Club. Come la futura SuperChampions. Vale per i club e per i calciatori. È più o meno quel che cantò Sergio Endrigo nella canzone “Ci vuole un fiore”. I campionati rendono meno e quindi tenderanno a contrarsi. È la legge del mercato. Continuare a sbalordirsene magari ci fa fare bella figura a qualche cena. E basta.

 

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