Bill James, l’uomo di algoritmi e statistiche: “Ma il calcio non è il baseball, non è un gioco ordinato»

Al Corsera. «Io ero interessato a ciò che non sapevo, mentre quasi tutti, allora e ora, erano interessati a ciò che sapevano. Incontrai il Liverpool, intuilmente»

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Bill James, l’uomo di algoritmi e statistiche: “Ma il calcio non è il baseball, non è un gioco ordinato»

L’uomo degli algoritmi e delle statistiche è lui. Bill James, anni 75, intervistato oggi dal Corriere della Sera (a firma Massimiliano Nerozzi). Il Corsera lo presenta così:

L’uomo che con la sua «sabermetrica», la rivoluzionaria analisi delle statistiche, ha stravolto lo sport americano, finendo per vincere quattro titoli della Major League con i Boston Red Sox, che erano a secco da 88 anni. È stato «Moneyball» prima di «Moneyball».

Il film dove Brad Pitt portò al cinema il gm degli Oakland Athetics Billy Beane che trasformò le statistiche in fenomeno planetario. Lui al Corriere della Sera però dice che baseball e calcio non sono la stessa cosa. Ma dice tante altre cose.

Bill James, l’algoritmo anche nel calcio? «Non è il baseball»

Billy Beane disse che esistono numeri chiave pure nel calcio, ma forse non sono ancora stati individuati.
«Non lo discuto, ma vorrei che mi capisse. Il baseball è un gioco molto ordinato, intrinsecamente incline all’analisi organizzata. I giocatori si alternano alla battuta; si fermano in punti contrassegnati sul campo, prima, seconda, terza base; tre out in ogni turno, nove inning in ogni partita. Insomma, ogni punto può essere confrontato con altri. Un giocatore o una squadra è sempre in attacco o in difesa, mai in uno stato intermedio. Il calcio non è affatto così: non si alternano a tirare il pallone, non si muovono costantemente da uno stato definito a un altro».

Morale?
«Semplicemente, non è la stessa cosa». 

Mai chiamato dal calcio?
«Alla fine, no. Quando il signor Henry (boss dei Red Sox, ndr) acquistò il Liverpool, mi chiese di incontrarmi con Ian Graham (dirigente dei Reds, ndr) e lo feci: non credo che nessuno di noi due abbia tratto molto beneficio da quell’incontro».

Lei ha studiato Economia, Guardiola assume astrofisici: l’analisi dei dati è globale?
«Penso stia andando così, anche se altre forme di analisi possono essere ugualmente preziose e non sappiamo mai realmente da dove nasceranno le future intuizioni. Supponiamo che una squadra sia gestita da un gruppo di medici, capaci di ridurre gli infortuni gravi, o da un gruppo di psicologi, capaci di migliorare la concentrazione».

Cosa vorrebbe dire?
«Che qualsiasi analisi è guidata dai dati, in una certa misura. Cosa fa uno psicologo? Misura cose: intelligenza, soddisfazione lavorativa, stress. Idem la medicina, con pressione sanguigna, quantità di ferro nel sangue, densità ossea e altre mille cose che non capisco realmente».

Da dov’è partito?

«Ciò che mi distingueva da altri giornalisti sportivi era che io stavo effettivamente usando i numeri come numeri, piuttosto che come linguaggio: stavo facendo matematica ed ero interessato a ciò che non sapevo, mentre quasi tutti, allora e ora, erano interessati a ciò che sapevano. Mi importano più le domande che le risposte».

L’analisi è conoscenza?
«Il mondo è miliardi di volte più complicato della mente umana e, per questo motivo, tutte le “spiegazioni” del mondo contengono molta più “spazzatura” che verità. Ogni bambino, dalla nascita, è gettato in una lotta senza fine per dare senso al mondo, ma è una battaglia che non possiamo vincere. Semplicemente, non siamo abbastanza intelligenti. È la stessa idea dell’analogia della caverna di Platone: creiamo immagini semplificate di realtà esterne complesse, come ombre sulle pareti di una caverna, per fingere di capire cose che non comprendiamo affatto». 

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