Augias: «Invecchio con serenità, consapevole che fra un po’ finisce. Vorrei andarmene con decoro»

A Specchio: «Invecchiare non è facile. Al di là delle sciagure fisiche, si può farlo con malanimo, con acrimonia, sentendosi in credito con il mondo. Io non ho né crediti né debiti».

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Su Specchio una lunga intervista a Corrado Augias. Si dice sorpreso ogni volta che gli ricordano di avere 86 anni.

«Se mi dicono che ho 86 anni sobbalzo. Me ne sento 60, neppure uno di più. Faccio sport, ho una memoria prontissima e con il Covid lavoro persino più di prima».

Augias ha curato per vent’anni la rubrica delle lettere su Repubblica. Ricorda la lettera più bella che ha ricevuto.

«È una lettera che in realtà sono due. Uno studente di un liceo romano mi chiese semplicemente: Caro Augias, che cosa devo fare? Gli risposi: scruta nei tuoi interessi e nelle tue capacità. Pochi anni dopo mi cercò di nuovo: l’ho ascoltata e oggi, grazie alla sua spinta, faccio l’insegnante e sono felice».

Una bella sensazione.

«Bella. Ogni tanto qualcuno mi scarica addosso delle palle di fango, ma in genere le persone mi scrivono con affetto: suscito sentimenti benevoli. Invecchiare non è facile. Al di là delle sciagure fisiche, si può farlo con malanimo, con acrimonia, sentendosi in credito con il mondo. Io invecchio con serenità, consapevole che fra un po’ finisce. Non ho né crediti né debiti e vorrei andarmene con decoro».

Il problema non è la morte, dice, ma come si muore.

«È che morire va bene, quello che nasce muore, lo sappiamo fin da bambini. Dunque la morte in sé non mi spaventa, è il modo che può suscitare qualche preoccupazione. In sostanza mi preoccupa il morire, non la morte».

Dopo la morte è sicuro non ci sia niente. E non è nemmeno spaventato dal nulla eterno.

«E perché? Quello è bello. Siamo venuti su questa terra senza averlo chiesto, siamo qui per caso e questo caso ha una fine. Veniamo dal nulla e, dal punto di vista cognitivo e psicologico, torniamo al nulla. Ma dal punto di vista materiale qualcosa rimane, anche quando veniamo cremati. Ci disperdiamo nei fiumi o diventiamo parte dei prati. Le mie ceneri si confonderanno con la terra della campagna umbra».

E torna sul discorso delle palle di fango

«Un po’ seccano».

Racconta l’ultima ricevuta.

«Non più tardi di un mese fa sono caduto in una trappola di una finta lettera dell’Enel che io ho trattato come se fosse vera scrivendone su Repubblica. Sono stato molto preso in giro, ma io ho davvero una disputa con l’Enel per dei pannelli solari. Mi hanno coperto di palle di fango. Non si fa così, sono espressione di una società incattivita, sono gesti crudeli. Non puoi deridere o calunniare una persona per uno scivolone».

Gli viene chiesto se c’è un periodo della sua vita che ricorda con paura o con rimpianto. Risponde:

«Vede, noi subito dopo la guerra giocavamo vicino a Porta Latina – dove abitavo – in campi disseminati di residui bellici. Un compagnuccio perse una mano per una bomba a cui tolse la sicura. Eppure non avevamo la sensazione di essere bambini infelici. Eravamo dei miserabili. Eravamo nella penuria, ma io l’ho saputo solo quando è cominciato il benessere. Ripensandoci dopo capisco che furono prove durissime. Perché avevamo fame. Di cibo. Di pane. Di companatico. Cosa che fortunatamente oggi, nonostante l’epidemia, non abbiamo più. Oggi sono andato a fare la spesa in un supermercato che rigurgitava di merci ed era pieno di gente che le comprava».

 

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