Mazzola: «Quando andrò in Paradiso ritroverò mio padre e gli domanderò: “Giocavo bene a pallone?”»
A Libero. «Maradona faceva beneficenza di nascosto, distribuiva tantissimi soldi e aiuti ai poveri. Ho conosciuto Padre Pio, mi disse che tifava Toro e stimava molto il mio papà».

Su Libero una bellissima intervista a Sandro Mazzola, simbolo storico dell’Inter. Racconta la sua infanzia in una famiglia povera, dove dormiva nello stesso letto con il fratello Ferruccio.
«Giocavamo a calcio tutto il giorno. Quando il pallone finiva contro le vetrine, i commercianti ce lo bucavano; oppure lo faceva il parroco, se non andavamo a messa. Il pallone costava 500 lire, che ovviamente non aveva nessuno. Così per ricomprarlo andavamo a rubare le sigarette dei contrabbandieri dai tombini e le rivendevamo».
La sua era una famiglia cattolica. Mazzola iniziò a giocare a pallone nell’oratorio della basilica di Santo Stefano, a Vedano al Lambro, grazie a Don Giordano Miradoli
«Ci aveva creato una specie di campetto. Non c’erano né lo spazio né i soldi per farne uno vero. Ma lui si era ingegnato: aveva messo due porte e una rete alta che recintava e chiudeva la strada dove si parcheggiavano le auto. Purtroppo però il fondo era di asfalto e rovinava le punte delle scarpe. Essendo l’unico paio che avevamo, le nostre mamme si arrabbiavano e volevano impedirci di giocare».
La squadra si chiamava La Milanesina.
«Avevamo una maglia nera con il colletto e i polsini bianchi. Quando arrivava un nuovo giocatore andavamo dalla majera, la magliaia, per farne fare una su misura per lui. Il problema era pagarla. Allora al mercato della frutta ognuno di noi piccoli calciatori rubava un frutto: chi una mela, una pera, un arancio… Poi li rivendevamo».
Don Giordano cercava di curare il loro spirito.
«Se si accorgeva che saltavamo la messa delle 7.30 la domenica, non ci dava le chiavi del campetto. Allora noi cominciavamo a dire ad alta voce in mezzo alla gente che il don il venerdì mangiava la carne di nascosto. Così per zittirci mandava la perpetua a prendercele».
Una volta, racconta, si presentò a San Siro.
«Una volta il custode di San Siro venne a dirmi che c’era un prete che non aveva i soldi per il biglietto ma voleva assolutamente entrare. Era don Giordano. L’ho fatto accompagnare in tribuna d’onore».
Mazzola racconta il suo rapporto con la preghiera. Ora prega meno, dice
«ma quando ero piccolo, prima di addormentarmi, dicevo molte preghiere, spesso anche il rosario. Chiedevo al Signore di farmi diventare un giocatore bravo come il mio papà».
Il padre morì nella tragedia di Superga, nel 1949. Bellissimo il ricordo di Mazzola.
«Si era separato dalla mamma e io abitavo con lui a Torino. La mia prima partita nella giovanile dell’Inter fu un disastro. Dal campo si vedeva la basilica dove era precipitato l’aereo. Non riuscii a togliere lo sguardo da lì. Non presi mai palla. Ma Meazza, l’allenatore, non mi sostituì. A fine incontro, mi mise un braccio intorno al collo dicendomi: “Preocupes no, go capit töt”, non ti preoccupare, ho capito tutto».
Spera di incontrare di nuovo il padre dopo la morte, nell’aldilà, in cui crede fermamente.
«Ci andrò quando gli angeli mi porteranno sopra una nuvola, in Paradiso. Lì ci sarà una chiesa da cui uscirà mio padre. Mi verrà incontro e ci riabbracceremo. E gli domanderò: “Ma giocavo bene o no a pallone?”».
A Mazzola vengono elencati una serie di calciatori e allenatori che non ci sono più e gli viene chiesto di indicare se sono in Paradiso, Purgatorio o all’Inferno. Colloca Maradona in Paradiso.
«Nessuno sa davvero quanta beneficenza faceva, perché la faceva di nascosto. Ero a Napoli per una partita della Nazionale. Andai a messa e il parroco mi avvicinò per raccontarmi sottovoce che Maradona distribuiva tantissimi soldi e aiuti ai poveri, ma non lo si doveva dire».
In Paradiso anche Meazza «uomo di una gentilezza rara» e Paolo Rossi, Giacinto Facchetti, il rivale Gianni Rivera e Benito Lorenzi, del quale racconta:
«Fu lui a portarmi all’Inter. Era convinto che mio padre gli avesse fatto vincere due scudetti. Lorenzi era spesso convocato in Nazionale, ma non giocava mai. Allora papà parlò con il ct, che lo fece entrare in una partita. Gli era molto devoto, e per riconoscenza prese Ferruccio e me sotto la sua protezione. Pensava: se sono buono con i suoi figli, Valentino da Lassù mi farà vincere. Una volta siamo andati con lui anche da Padre Pio. Avevo dodici anni, partimmo con la 500 di Lorenzi, che era notoriamente spilorcio, da Torino. Lungo la strada avevamo paura perché Veleno insultava gli altri automobilisti, a volte si fermava per litigare».
Padre Pio lo confessò.
«Era dolce e gentile. Io mi emozionai, perché ero cresciuto con i racconti delle mie nonne sui suoi miracoli. Mi disse che tifava Toro e stimava molto il mio papà».
Uno solo spedirebbe all’inferno, ma non ne fa il nome. Spiega:
«Ce ne era uno a San Siro. Però non le confesserò mai come si chiama. Gli dissi che non c’erano soldi in palio all’Inter. Picchiava pure duro alle caviglie”. Il peggior peccato che possa commettere un calciatore è vendere una partita. Una volta uno dell’Inter aveva fatto apposta un autogol. Quando siamo scesi negli spogliatoi lo abbiamo quasi ammazzato di botte. Purtroppo allora accadeva più spesso, perché c’era molta povertà».