Il ritorno di Delio Rossi: «Mi dispiace, ma l’esonero fu un’ingiustizia»

La tristezza di certe canzoni francesi va benissimo per questa storia. Le foglie morte, la faccia di Brel, gli occhi di Edith Piaf, e la voce rotta di Delio Rossi quando ricorda. Pure Zidane viene da evocare, e quella testata con cui uscì dal calcio giocato. Ne me quitte pas. Prego accomodatevi, sprofondiamo insieme. Perché quando […]

La tristezza di certe canzoni francesi va benissimo per questa storia. Le foglie morte, la faccia di Brel, gli occhi di Edith Piaf, e la voce rotta di Delio Rossi quando ricorda. Pure Zidane viene da evocare, e quella testata con cui uscì dal calcio giocato. Ne me quitte pas. Prego accomodatevi, sprofondiamo insieme. Perché quando un episodio segna il tuo percorso, e tutti credono che sei dannatamente dalla parte del torto, rialzarsi in pubblico è difficile.

Puoi far finta di niente, minimizzare. Ma qualcuno che ti chiede il resoconto lo trovi sempre, soprattutto se c’è del sospeso. Quindi, o ci fai un libro – ma no, Delio Rossi non è tipo da instant book – o provi a ragionare sui perché, a voce alta. «Non sono il tipo, ha ragione. Anche perché mancherei di rispetto all’altra parte di me: quella che ha cura dei libri, e delle grandi storie. Sono un avido lettore: libri storici, mattoni da mille pagine per intenderci». Va bene: partiamo dalla letteratura, da lontanissimo. «Sono anche un appassionato di gialli: finali a sorpresa, capovolgimenti di fronti, punti di vista diversi. Dipende dall’umore».

Ma qui dobbiamo parlare d’altro. Di quando sostituisce Ljajic, durante Fiorentina-Novara del maggio scorso: il serbo non gradisce e gli rivolge applausi di scherno, lei si infuria e gli si butta addosso: schiaffi, manate; la società che la esonera, e tre mesi di squalifica (da poco finiti di scontare).
Ho visto e rivisto quelle immagini cento volte. Mi sono guardato, ho ripensato a quel momento per settimane e mesi: ho vissuto tutto da dentro e da fuori. Sono costernato, sono dispiaciuto. Io ero quello che andava verso il giocatore, che inciampava, che cadeva goffamente in avanti, che si buttava verso la panchina, ero quello. E che poi usciva tramortito dal tutto. E ora sembra di essere ancora fermo lì, a quel momento. Perché l’unico che ha pagato, sono stato io. L’unico che si è preso le colpe, sono stato io. Ma forse è stato un supplizio troppo forte, per quello che è successo realmente.

Cosa è successo realmente?
Solo io so come sono andate le cose: e nessuno lo ha detto chiaramente. Le parole di appoggio e conforto mi sono arrivate da fuori, sul telefonino, nei messaggini privati, ma pubblicamente la facciata da mantenere è sempre stata un’altra. Ho chiesto scusa a tutti, e quando rivedrò Ljajic gli chiederò scusa di nuovo, ma il punto è un altro: io sono una vittima, non sono un violento; sono un buono, un uomo semplice, uno che non cura l’immagine, e che lascia trasparire tutto quello che pensa. Ed ecco che la mia reazione è diventata quella di un matto, mentre pazzo non sono. Se fossi stato un furbo, avrei regolato i conti nello spogliatoio, come fanno tutti. Scene come quella che avete visto, ce ne sono tutti i giorni. Non sono un ipocrita, non nascondo niente: avete solo visto il Delio Rossi arrabbiato, che se la prendeva con un suo giocatore, ma aveva tutti i motivi per farlo.

Ma cosa le aveva detto Ljajic?
Sono state date tante versioni. Nessuna è vera. Non c’è insulto personale o parolaccia grave, non mi è andato il sangue alla testa per stupidaggini o gesti da bambino; mi sono semplicemente arrabbiato, come un allenatore fa con un proprio giocatore. Ma di parole o gesti scemi se ne sentono e vedono tanti, e molto più gravi di quello di Ljajic. Lì, in quel momento, in quel preciso momento c’era da ristabilire un ordine, e l’ho fatto in maniera sanguigna. Certo, potevo essere più sgamato, più paraculo: avrei potuto, come no. Ma non sarei stato me stesso. E, poi, comunque, la manata non l’ha mica presa lui, ma il mio collaboratore. Non si può generalizzare, come ho sentito in giro. Non è colpa dei giovani d’oggi, che crescono privi di regole; non è colpa del calcio di oggi, che non ha più maestri.

E’ colpa delle telecamere, allora?
Sì, anche.

Ora è cambiato?
No. Non sono cambiato, da quell’episodio. E non mi comporterò diversamente. Se uno nasce tondo, non muore quadrato. Dirò sempre quello che penso. Voglio continuare ad essere solo me stesso.

Ora la Fiorentina ha Ljajic, e lei sta fuori.
E mi dispiace parecchio, la guardo, e penso a quello che avrei potuto fare io oggi con quella rosa. Con quell’organico tutto cambiato: la rivoluzione l’ho chiesta io, e quella che si è trovato in mano Montella è farina del mio sacco. L’esonero è stato troppo, per me. Un’ingiustizia. La Fiorentina ha preso nettamente una parte, si è schierata, su una vicenda che poteva essere gestita in altra maniera, meno traumatica per il sottoscritto. Volevano ripulirsi la faccia, e hanno mandato via me: era la cosa più semplice da fare. Troppo semplice, e non si è pensato al valore umano delle persone in gioco. Si è buttato nel cestino un professionista, che ha cresciuto ragazzi, che ha fatto avanzare giovani talenti, che ha sollevato dalle loro sorti squadre e squadrette. Quello che sta facendo Montella potevo farlo anch’io. Tornerei alla Fiorentina anche domani.

Ha detto no al Palermo di Zamparini, quello del dopo Pioli.
Sì, è vero. Era una proposta fatta troppo a caldo, senza programmazione. Le società prendono e buttano allenatori professionisti, mentre sono loro che creano e portano avanti progetti a lunga scadenza. Pazzesco come il Milan stia mettendo in discussione Allegri. O, altra assurdità: i ritiri precampionato si fanno con l’80% di calciatori che andranno via, e all’ultima giornata di mercato estivo poi fanno gli acquisti importanti.

Il Cagliari potrebbe essere la sua nuova squadra?
Visto che ho fatto la Sicilia, mi manca la Sardegna…e poi sono pronto per andare all’estero.

A parte le battute, a Cagliari gira voce che Cellino le abbia già comprato casa in centro.
Davvero? Mah, quando avrò una proposta che mi soddisfa, l’accetterò. Deve essere una proposta che riguarda una programmazione a lungo termine, e prenda in considerazione il mio modo di lavorare, e la mia storia.

All’estero ci andrebbe?
Mi piacerebbe stare in Italia. Quelli che vanno all’estero lo fanno per due motivi: per avere visibilità, o per soldi; basta con quelle risposte: vado per fare nuove esperienze di vita; ma chi ci crede? Comunque, ora basta, basta parlare di quella vicenda del maggio scorso, basta, non ne posso più. Non vorrei cancellare quell’episodio, vorrei solo che venisse assorbito come un fatto che mi descrive, ma che non mi penalizza. Basta anche con la scena seguente: io che giro le spalle al fattaccio, e me ne vado dal campo, con il cuore mangiato. Devo ripartire. Proprio come avviene quando passi a una letteratura più alta.

Dai, ultimo libro letto?
Cinquanta sfumature di grigio.
Gabriella Greison

(tratto da Pubblico)

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