Raciti, la figlia: «Abbiamo appreso della sua morte in diretta tv, i due assassini non si sono mai scusati»
L'ispettore capo fu ucciso da due ultras catanesi nel 2007: «Ad Acireale hanno intitolato una stradina a mio padre senza targhe e senza dirci nulla. L’ho vissuta come una mancanza di rispetto».

A picture shows the winter season ball of the Italian Serie A before the football match between Torino and Inter Milan, at Torino's Olympic Stadium, in Turin on October 21, 2023. (Photo by Marco BERTORELLO / AFP)
La figlia di Filippo Raciti, ispettore capo della Polizia che fu ucciso nel 2007 da due ultrà catanesi al termine di Catania-Palermo, ha raccontato alla Gazzetta dello Sport la tragica morte del padre.
L’intervista a Fabiana Raciti, figlia dell’ispettore capo della Polizia ucciso nel 2007
Cos’ha trasmesso suo padre a lei e a suo fratello Alessio?
«L’essere dediti al dovere. Era legato all’onore della divisa. I miei genitori si sono sposati giovani: mia madre aveva 18 anni, lui 23. Conoscevamo i rischi: ha prestato servizio al G8 di Genova, quello in cui morì Carlo Giuliani, a Lampedusa, al funerale di Papa Wojtyla, alle partite. Noi ci sintonizzavamo. L’abbiamo fatto anche quel 2 febbraio».
Avete appreso così della sua morte?
«Sì, in diretta. Una violenza. Eravamo in cucina. Io ero rientrata a casa da poco, mia madre e mio fratello giocavano. Ricordo gli scontri, i fumogeni, le scintille delle bombe carta, e poi una striscia rossa con scritta bianca. “Morto Filippo Raciti”. Ci fu un silenzio che sembrava infinito».
Sua madre, Marisa, com’è cambiata?
«Sono in un anno di riflessione. Lei è diventata vedova a 34 anni, l’età che ho io oggi. Si ritrovò a fare da madre e da padre a un’adolescente di 15 anni e a un bambino di 8. È stata uno scudo».
Come ha elaborato il dolore?
«Ci convivo come se fosse una malattia. Un ospite poco gradito. A 15 anni ho messo sulla bilancia la spensieratezza di un’adolescente e l’urgenza di crescere per forza. Ho pianto e provato rabbia».
Verso gli assassini di suo padre?
«Verso tutto. Io e mio fratello tornammo a scuola una settimana dopo la sua morte, ma abbiamo avuto difficoltà: sa quante volte, entrando in classe, ho trovato sul banco scritte vergognose? Del tipo: “10, 100, 1000 Raciti”. Per tre volte ho dovuto cambiare aula, a casa ci hanno bruciato il citofono, ci hanno minacciato al telefono e su Facebook, offeso, ferito, umiliato il suo nome con striscioni assurdi. Mi chiedevo, perché? Dopo il diploma volevo andare all’estero. Oggi vivo e lavoro a Bruxelles, ma non dimentico certe cose».
Antonino Speziale e Daniele Micale, condannati a 8 e 11 anni per omicidio preterintenzionale, si sono mai scusati?
«No, mai».
La sua morte fu uno spartiacque: da lì in poi la gestione della sicurezza negli stadi cambiò…
«In Sicilia mi aspettavo di più. Tempo fa sono tornata ad Acireale, casa della mia famiglia, per il mio compleanno. Ho imboccato una stradina e ho visto che era intitolata a mio padre. Nessuno lo sapeva. Una via anonima, senza targhe. L’ho vissuta come una mancanza di rispetto. Il gabinetto regionale di Polizia Scientifica di Catania, invece, è stato intitolato a Filippo Raciti. Ne siamo fieri, ma dalla Sicilia i messaggi arrivano di meno. Invito chi di dovere a fare in più».
Il luogo che la rende più orgogliosa?
«L’aula magna della scuola per l’ordine pubblico di Nettuno, dove c’è un affresco in suo onore, e l’aula del Senato intitolata alla sua memoria. Il mondo del calcio ci è stato vicino e non ho rancore, mi piacerebbe far passare un messaggio: negli stadi circolano gioia e odio, violenza e felicità, ancora oggi. Se papà è morto per difendere dei valori che sembrano fragili, c’è qualcosa che non va».










