Il calcio in Italia è diventato uno sport per ricchi. Altrove si investe nel sociale, da noi no
La Norvegia ci prende a pallate. Il calcio italiano è malato, molto malato, ma continuiamo a far finta di niente.

Mg Milano 16/09/2025 - qualificazioni Mondiali 2026 / Italia-Norvegia / foto Matteo Gribaudi/Image Sport nella foto: esultanza gol Erling Haaland
Il calcio in Italia è diventato uno sport per ricchi. Altrove si investe nel sociale, da noi no
San Siro, 16 novembre. Pioggia. Per la Norvegia non è un problema, sono abituati. Per l’Italia, un po’ meno. Ne esce non una partita di calcio, ma un bollettino clinico. Quattro a uno, quattro a uno in casa, contro una Norvegia che ha un fuoriclasse e sa come usarlo, e non si fa problemi a fartelo sapere. Un referto che certifica un male che viene da lontano, molto più di una sola partita o di un allenatore, e che il palazzo sembra non voler capire.
Il copione del primo tempo ci aveva illuso, come una speranza che si fa strada nel buio, per poi svanire con le prime luci dell’alba. Il gol di quel ragazzo, Pio Esposito, è stata una fiammata nel nulla, la prova che ogni tanto un po’ di benzina la buttiamo ancora sul fuoco, ma il resto è cenere. Ci si aggrappa al “ragazzo di belle speranze”, ma si sa che se si deve fare così, si è già persi. Il fuoriclasse, quello che da solo ti cambia la partita, ce l’hanno gli altri, noi lo sogniamo e lo raccontiamo nei bar, con nostalgia.
Il nostro marchio di fabbrica, la difesa, è andato in pensione. Le due Coppe del Mondo, quelle vere, sono un ricordo sbiadito, come una vecchia cartolina ingiallita. E la Norvegia, con la sua sfrontatezza, ci ha umiliato con un cinismo che fa male. Perché non è la sconfitta che brucia, ma il modo in cui è arrivata. Un primo tempo da provinciali, un secondo da dilettanti. E un Haaland che se ne va con due gol, come un ladro gentiluomo.
C’è un motivo per tutto questo. Il calcio in Italia è diventato uno sport per ricchi. Le scuole calcio costano, e costano tanto. E il talento non ha il bancomat. Altrove, si investe nel sociale, si dà una palla in mano a tutti, senza chiedere l’estratto conto. E poi arrivano i fuoriclasse. Noi, invece, continuiamo a guardare l’orticello di casa, sperando che nasca un pomodoro, quando il vicino ha già un campo di pomodori.
L’andata, costò a Spalletti, l’esonero. Ora a Gattuso, l’animatore, il motivatore, l’uomo coraggioso che ha avuto il merito di accettare questa barca alla deriva, spettano i playoff. La sostanza non cambia. I problemi sono strutturali, non di facciata. E dal parterre, quella gente che del calcio non capisce niente, si continua a guardare il dito e non la luna. La verità è che il calcio italiano è malato. Molto malato. E la Norvegia, con il suo 4-1, ci ha solo dato la certezza che la febbre è alta. Ai playoff troveremo squadre più attrezzate, più ciniche, più forti. E noi, con le nostre belle speranze e i nostri ricordi, rischiamo di rimanere a guardare il Mondiale da casa. Ancora una volta magari ci arriveremo pure, ma a passeggiare. Abbiamo giocato con Frattesi che è una riserva fissa a Milano; abbiamo sacrificato Orsolini, forse il miglior esterno italiano al momento, ad una fredda panchina. Abbiamo un bomber che gioca in vacanza in Arabia e difensori che passano più tempo a simulare colpi che a difendere. È un Italia calcisticamente povera di talento che riesce a vincere con le cenerentole d’Europa ma è riuscita a diventare nettamente inferiore alla Norvegia.











