Il calcio fa finta di essere neutrale per pavidità, ma è politico per sua stessa natura (Guardian)
"Il semplice atto di cercare di non significare nulla è di per sé una forma di significato. I simboli contano eccome, inutile far finta di no"

Supporters hold Palestinian flags as they cheer prior to the start of the UEFA Champions League group E football match between Celtic and Atletico Madrid at Celtic Park stadium in Glasgow, Scotland, on October 25, 2023. (Photo by ANDY BUCHANAN / AFP)
Visto che il dibattito “Italia-Israele sì-no” è diventato d’attualità pur disinnescato dalle solite dichiarazioni cerchiobottiste di Gattuso e degli impavidi giocatori di pallone, qui da noi, cade a pannello un editoriale di Jonathan Liew sul calcio e i simbolismi. E’ scritto riferendosi all’Inghilterra, ma il ragionamento è universale. Il calcio è politica, hai voglia se lo è.
“Il calcio è sempre stato un partecipante riluttante a queste conversazioni – scrive Liew sul Guardian – e in particolare il calcio inglese, con la sua fiera vena anti-intellettuale e la sua venerazione per il profitto. Dopotutto, ci sono vibrazioni da mantenere, barbecue usa e getta da vendere, giardini dei pub da riempire, pacchetti aziendali del Club Wembley da spostare. Molto meglio rifugiarsi nei soliti luoghi comuni: non c’è onore più grande, giocare per la maglia, e così via”.
Tuchel “ha manifestato la sua avversione per la politica sportiva, ammettendo persino di poter usare la sua estraneità come una sorta di mantello di inattaccabilità in tali questioni. Visto attraverso gli occhi di Tuchel, il calcio – anche quello internazionale – probabilmente sembra uno spazio completamente neutrale, un mondo ermeticamente chiuso dove i confini sono fluidi e gli spogliatoi sono poliglotti, dove tutti sono ricchi e talentuosi, dove tutti i campi da calcio sono uguali e tutti i campi da calcio sono buoni“.
Prosegue il Guardian:
“Ma allo stesso tempo è importante essere chiari su cosa Tuchel stia realmente dicendo. Ciò che sta dicendo è che la sua nazionale inglese non rappresenterà nulla al di fuori di se stessa. Giocherà a calcio, e voi la guarderete, e cercherà di vincere, e voi sarete felici o tristi, e queste da sole sono il soffitto e le quattro mura della sua ambizione. Qualunque cosa si intenda per ambizione, è anche una linea disperatamente difficile da mantenere, e non solo perché, nel calcio, la politica ha l’abitudine di trovare una via d’uscita anche attraverso le crepe più impermeabili”.
“Perché se Barthes – Roland, non Fabien – ci insegna qualcosa, è che il semplice atto di cercare di non significare nulla è di per sé una forma di significato. Forse questo è doppiamente vero in un’attività culturale di massa come il calcio, uno sport completamente soggiogato dalle sue mitologie, dai suoi simboli, un fenomeno che viene costantemente frantumato nel calore assoluto del suo sguardo collettivo. Per quanto si cerchi di spogliarlo di significato – l’inutile cordialità, l’infinito scorrimento di contenuti, le partite che si susseguono – il significato trova sempre una via”.
E ancora:
“Più ci tiriamo indietro dal definire questi simboli, più siamo vulnerabili al fatto che vengano definiti per noi”. “E sì: è stancante dover continuare ad avere queste discussioni. Dovrebbe essere deprimente dover ribadire i principi fondamentali della nostra umanità, dover discutere con chi non ha alcuna intenzione di ascoltare, dover ricordare ripetutamente che il calcio internazionale è politico per sua stessa natura. In un certo senso, questa è semplicemente la misura del momento in cui ci troviamo: una società ridotta a un involucro, svuotata e senza direzione, ridotta a urlare contro i simboli. Ma quando i simboli sono tutto ciò che rimane, contano moltissimo”.