«I ragazzi da un po’ di tempo sono “Tutto e subito, altrimenti non è colpa mia”. Sinner piace perché in lui si vede il segno della fatica»

Dopo le numerose interviste rilasciate ieri sera in occasione del Galà del calcio, il ct della Nazionale Luciano Spalletti, ha chiacchierato anche con Walter Veltroni sulle pagine del Corriere della Sera, partendo ovviamente dal suo recente passato e dal Napoli
Tu vedi anche la necessità di una educazione morale, etica, dei giovani calciatori? Troppi episodi, a cominciare dalle scommesse, sembrano dire di sì.
Spalletti: «La storia delle scommesse è profonda. Le pubblicità che vengono proposte tre o quattro volte a partita. Le società di scommesse come sponsor. Ci si indigna, ma si pubblicizza una cosa che ha ragione di esistere solo economicamente e in nessun modo eticamente… Purtroppo le scommesse non sono solo una piaga nel mondo del calcio, ma spesso lo sono sul piano sociale, esistono famiglie rovinate da una “malattia”, una dipendenza, che purtroppo all’economia fa comodo tenere in piedi. È un po’ come il discorso delle sigarette, e lo Stato che le rende legali. Vedere ragazzi che non hanno talento o fortuna è triste ma c’è qualcosa di più amaro e di più insopportabile del non avere talento o fortuna: è avere l’uno e l’altra ma non saperli riconoscere e apprezzare. Questo per me fa la differenza tra un uomo vero e un uomo apparente. Dico sempre ai miei giocatori di pensare che sugli spalti c’è gente che si è fatta un mazzo così tutta la vita, che ha faticato, in ogni campo, per migliorarsi e che si aspetta lo stesso da persone che paga per vederle in uno stadio, alle quali consegna cuore ed emozioni, e dalle quali si aspetta impegno. Perché tutti vogliono bene a Sinner? Perché in quel ragazzo, nel suo gioco e nei suoi risultati, si vede il segno della fatica, delle ore spese per migliorarsi».
Le cuffiette e i cellulari non destrutturano il senso di appartenenza a una comunità sportiva, a una squadra?
Spalletti: «I giovani calciatori sembrano avere meno fame, hanno troppe sicurezze. La loro formazione avviene su campi perfetti, con l’erba sintetica e le docce calde. Maradona, i filmati ce lo raccontano, si rotolava con il pallone in campi che sembravano acquitrini. C’era sofferenza, fatica, una innata cultura della sfida e del miglioramento. I panni, dopo l’allenamento, vanno lavati, devono essere ben sporchi. I ragazzi oggi mettono il loro musino in ogni banalità. Si aspettano che tutto sia dovuto, sembrano avere poca voglia di sacrifici. I ragazzi da un po’ di tempo sono “Tutto e subito, altrimenti non è colpa mia”. Non ho timore a dire che in ogni campo e in ogni momento della formazione — un genitore, un insegnante, un allenatore — c’è bisogno di qualcuno che li aiuti a distinguere tra mondo reale e mondo virtuale, che gli faccia respirare la carnalità, la corporeità delle paure, degli incontri, delle possibilità. È questo il modo di proteggerli e di spronarli. Hanno bisogno di dolce autorevolezza. La prima volta che sono entrato nello spogliatoio della Nazionale li ho fatti alzare in piedi e insieme abbiamo cantato l’inno d’Italia e ora abbiamo anche definito un grido di incitamento e motivazione che ci serve per sentirci uniti, vicini».
Parlami del tuo rapporto con Napoli.
Spalletti: «A Napoli ho lasciato il cuore. Non è immaginabile l’affetto, anzi l’amore che mi sono scambiato con quella città. Mi ha regalato, per la prima volta nella mia storia di allenatore, l’emozione unica di sentirmi parte di una comunità. A Napoli sono stato felice perché ho toccato con mano la felicità dei napoletani e dei miei calciatori. Ho ricevuto sensazioni indescrivibili. Una delle cose più belle che potessero capitarmi nella vita. È stata la mia università di vita, penso sia difficile avere più di quello che ho avuto io e nessuna impresa può meritare quello che i napoletani hanno dato a me. Sono orgoglioso, fiero, di diventare giovedì un loro cittadino onorario. Erano più di trent’anni che il Napoli ed io pensavamo di andare nello stesso luogo, di fare lo stesso viaggio. Incontrarci, esiste un’arte dell’incontro, ci ha fatto arrivare, ambedue, il più lontano possibile. Noi veniamo al mondo con una sola ala, non possiamo volare in alto se non cerchiamo chi ci completa. Napoli è stata la mia seconda ala. Per questo la ringrazierò sempre».