A Sette: «Non ho mai smesso di allenarmi. Sono andato oltre la rabbia e ho smesso di cercare la giustizia in ogni cosa: non posso vivere di rimpianti».

Sette, settimanale del Corriere della Sera, intervista il marciatore Alex Schwazer. Oro a Pechino nel 2008, poi due positività al doping, nel 2012 e nel 2016. La sua storia è diventata una docuserie in quattro episodi su Netflix, “Il caso Alex Schwazer“, prodotta da Indigo Stories. La serie inizia con un primo piano di Schwazer che dice che i casi di doping non sono mai uguali. Schwazer spiega:
«Il primo, nel 2012, fu la conseguenza di un forte malessere: mentalmente, ero arrivato. Non ho avuto vantaggi da quel doping né ho truffato nessuno: ci ho rimesso la carriera. Ho sbagliato, e pagato. Prima di puntare il dito su un
dopato, prima di generalizzare, però, chiediamoci cosa c’è dietro: una persona. Forse davo l’impressione di essere
una macchina programmata per vincere, ma non ho avuto l’aiuto che chiedevo. Ero depresso, incapace di esprimermi. Avevo 24 anni e molta difficoltà a parlare delle mie debolezze. Poi, sai, la testa da crucco non aiuta. Nei miei diari ci sono i tempi degli allenamenti e le frequenze cardiache. Punto. Il ragazzo era sovrastato dall’atleta, che voleva solo migliorarsi».
Alla docuserie partecipa anche Carolina Kostner, l’ex fidanzata di Schwazer, che per lui mentì all’ispettore antidoping («Alex non è qui») rimediando una dolorosissima squalifica.
«Sono stato sorpreso della sua partecipazione. L’ho chiamata per essere certo che avesse capito bene: Netflix raccontava la mia storia di alti e bassi, non la sua di pattinatrice vincente».
Vi sentite ancora?
«No. Capisco che Carolina su certe cose non voglia più tornare. Io ai suoi occhi sono passato per il male assoluto, ma non è proprio così. Tante cose ancora non le sa e vorrei raccontargliele di persona. Le ho proposto: vediamoci che ti spiego il mio punto di vista. Ma ha una sua visione dei fatti e tanto le basta. Per carità, io ho solo colpe per il controllo che evitai a casa sua. Però non incarno tutti i mali del mondo».
Il professor Sandro Donati, che ha sempre difeso Schwazer, si dice stupito: «Alex non ha mai mostrato acredine nei confronti dei suoi aguzzini». Al corridore viene chiesto come mai. Risponde:
«La verità è che nei momenti più bui avevo dentro una rabbia feroce».
Come ha potuto impedire che si accumulasse?
«Trattenendola, poi passa. Ho pensato alla rabbia che avevo provocato io con il mio primo caso doping, eppure ho ottenuto una seconda possibilità. Siamo andati oltre quella rabbia. E ho smesso di cercare la giustizia in ogni cosa: non posso vivere di rimpianti».
I suoi figli l’aiutano a fare pace con sé stesso?
«Se oggi sono un uomo, lo devo a loro. Da atleta ero egoista, viziato, al centro del mondo. Per la prima volta, con Ida e Noah ho cominciato a fare le cose per gli altri. Ricordo una frase di Josefa Idem a Pechino: quando hai figli, non perdi più tempo. Aveva ragione. Certe menate le molli».
Quando potrà tornare a gareggiare? Schwazer:
«Non dirò mai più che voglio fare un’Olimpiade senza avere la certezza di poter gareggiare. Mi hanno escluso da Rio, mi ero illuso per Tokyo. Non ho mai smesso di allenarmi: è parte di me, mi piace, mi fa stare meglio. Oggi al ritorno alle gare non dico né no né sì. Nel 2024 avrò 39 anni: ci sono anche le prove Master…».
Cosa rimane del meraviglioso marciatore di Pechino, il ragazzo altoatesino con la testa piena di sogni?
«L’oro in banca a Vipiteno che, a questo punto, per la causa giusta donerei. La persona, che spero emerga dal lavoro di Netflix. Tutto ciò che mi è successo è stato utile: non mi sento una vittima, oggi sono migliore. Senza togliermi colpe, l’Alex del doping non era l’Alex odierno. Solo io mi posso capire».