«Ha abbattuto il confine psicologico col pesante monumento di Maradona. Ancora oggi a Napoli molti contestano la paternità del successo”

Magari per i lettori spagnoli il vecchio e abusatissimo aneddoto del “Non sai cosa ti sei perso” scritto fuori al cimitero di Poggioreale per il primo scudetto è un dettaglio inedito, ma anche la paginata intera che El Paìs dedica alla festa-scudetto in preparazione a Napoli si perde per buona parta nel solito racconto dei luoghi comuni. La “parola che non si può dire”, la gente che non ne vuole parlare – mentre nella realtà ormai ci siamo affrancati, ne parliamo tutti tutto il giorno, sempre – e poi la coreografia della città, con le immagini dei calciatori in sostituzione dei soliti “panni stesi”. C’è tutto insomma.
Ma nel pezzo di Daniel Verdù c’è comunque di più. Prima di tutto perché è El Paìs, e il fatto che il Napoli sia diventato stabilmente una “notizia” a livello internazionale continua ad essere parte dello stesso racconto dell’impresa. E poi perché lo stesso articolo nella seconda parte ricorda “gran parte di questo è merito suo”, ovvero di Aurelio De Laurentiis.
All’inizio della stagione tutti criticavano per aver venduto stelle come Mertens e Koulibaly, e oggi tutta la città venera per aver costruito una squadra devastante con giocatori sconosciuti come Osimhen, il difensore coreano Kim Min-Jae e Khvicha Kvaratskhelia, un georgiano dal nome impronunciabile di cui tutto lo stadio si è innamorato. La strada per arrivare qui è stata dura. E gran parte del merito è suo.
El Paìs lo definisce “un uomo basso dal carattere diabolico”, e ricorda di quando “nell’estate del 2004 stava facendo colazione nel suo terrazzo a Capri quando lesse sul Mattino che il Napoli era in bancarotta e stava per essere messo all’asta. Lo storico club, che aveva vinto due scudetti e una Coppa Uefa con Maradona, non era altro che un vecchio stadio di cemento nel quartiere di Fuorigrotta, una tifoseria malinconica e una manciata di cambiali. De Laurentiis non aveva idea del calcio, gli interessava il basket. Ma l’ha comprato, ha investito 120 milioni e in tre anni l’ha portato in serie A. Voleva attuare un modello di contratto come quelli che faceva firmare ai suoi attori e teneva sempre a bada le finanze. Se il calcio era il più grande spettacolo televisivo in Italia, perché non avrebbe dovuto applicare gli stessi metodi che gli avevano portato tanti profitti al cinema? Il problema è che, proprio come accadeva in famiglia, ha dovuto misurarsi con il gigantesco mito di Maradona allo stadio (che peraltro oggi porta il suo nome)”.
Il punto, per El Paìs è che “uno scudetto ora abbatterebbe il confine psicologico che un ricordo trasformato in pesante monumento ha sempre rappresentato. Napoli ha sempre insistito sulla competizione con se stessa, sull’autodistruzione all’ombra del vulcano che voleva minacciarla. Anche adesso, sull’orlo di una storica vittoria, molti contestano la paternità del successo“.