Il presidente Federtennis a La Stampa: «La Davis dobbiamo vincerla entro 4-5 anni. Dopo Pietrangeli c’è Panatta. Quanto al Panatta dirigente, beh…»
Il presidente della Federtennis Angelo Binaghi non deve amare Adriano Panatta. Nell’intervista concessa a La Stampa, non nasconde quello che potremmo definire astio. Addirittura dichiara di non aver visto il documentario di Sky “La Squadra” vero e proprio fenomeno televisivo dell’anno sulla squadra che dal 1976 al 1980 vinse la Coppa Davis e giocò altre tre finali.
Ha visto “La Squadra”? Le piacerebbe tra 40 anni un docufilm sulla sua squadra?
«Lo vedrò. Un film? Non mi interessa. Meglio uno studio che spieghi come dall’orlo del fallimento abbiamo ricostruito una federazione invidiata in tutto il mondo. Io faccio gestione, non costruisco i campioni».
L’Italia può alzare la coppa Davis a fine novembre?
«In 4-5 anni dobbiamo vincerla. A Malaga molto lo farà la condizione fisica, di sicuro non ci sarà il Cile in finale…».
Non privo di malizia, ma in caso di finale Davis inviterà i vincitori del 1976?
«Perché no, buona idea».
Con Panatta?
«Certamente. Nel nostro tennis, dietro a Pietrangeli, c’è lui. Magari ce l’avessimo oggi. Quanto al Panatta dirigente… è già stato analizzato e classificato dalla storia».
Nella parte più politica dell’intervista, Binaghi attacca Malagò suo rivale politico.
Binaghi è al suo sesto mandato, non è più ricandidabile. Gli viene chiesto se ha già scelto il suo successore.
«Ho troppo da fare ora. Ci penserò dal prossimo anno. Non conta chi lo farà, ma come sarà gestita la Federazione. Quasi il 90% del nostro patrimonio arriva dall’autofinanziamento figlio di attività commerciali come le Finals, il 10% dallo Stato. Il ministro dello Sport Abodi è stato chiaro, siamo un caso scuola. Vogliamo continuare così o tornare a 20 anni fa quando il tennis stava affondando?».
Binaghi si è scontrato duramente con il presidente del Coni Malagò per la vicenda dei giocatori russi agli Internazionali d’Italia. Racconta come sono adesso i loro rapporti.
«Quelli personali sono buoni. Ci divide proprio la visione sulla gestione dello sport. Quella del Coni è vecchia di 50 anni e lui pensa principalmente a difendere il suo modello dalla politica ma la riforma Giorgetti ha permesso di spendere i soldi pubblici con criteri oggettivi, premiando i meriti e non i demeriti».
Via libera quindi alla politica: non è rischioso?
«Porte aperte a ogni riforma per rendere più efficiente il sistema. A prescindere dalla provenienza. L’assioma del Coni è che noi dirigenti sportivi siamo i migliori e che i politici sono tutti degli incapaci. La pensavo così anche io all’inizio, poi ho cambiato idea. Uno dei mali del nostro sport è l’autoreferenzialità. Io rispetto Malagò perché è il presidente del Coni, ma esigo uguale rispetto nei confronti miei e della mia federazione».